Abbiamo il Recovery fund ma non sappiamo cosa farne

Un articolo di Mario Seminerio comparso sul quotidiano Domani e pubblicato sul sito www.phastidio.net

Nei giorni scorsi il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, ha dichiarato che in Europa c’è accordo per evitare la reintroduzione del patto di stabilità almeno sin quando il prodotto interno lordo non sarà tornato al livello precedente lo scoppio della pandemia.

La posizione ha senso, vista la devastazione che il lockdown ha portato all’attività economica, soprattutto a quella legata ai servizi. A voler essere maliziosi, tuttavia, ci si può chiedere se il riferimento sia al livello del Pil medio dell’intera eurozona oppure solo a quello italiano. Nel secondo caso, il momento della reintroduzione del patto di stabilità potrebbe essere ancora più remoto.

Il livello del Pil italiano, allo scoppio della pandemia, era ancora inferiore a quello precedente la crisi della zona euro. Da qui i logoranti negoziati tra Roma e Bruxelles, fatti di eccezioni alle regole e ricerca frenetica di quella “flessibilità” che quasi sempre ha coinciso, negli anni, con deficit aggiuntivo e non finalizzato ad investimenti.

La pandemia ha causato ovunque una esplosione di debito che, nei prossimi anni, dovrà essere gestito. Le banche centrali sono impegnate a tenere basso il costo del denaro e a fronteggiare un crescente numero di effetti collaterali delle loro azioni che rischiano di sfociare in instabilità finanziaria e crisi conclamata di fiducia verso la moneta.

Il mantenimento di tassi d’interesse molto bassi sarà la precondizione per evitare gravi crisi di debito. Ma il peso dello stock di debito accumulato, a meno che non si verifichino pericolose fiammate inflazionistiche, si potrà ridurre soltanto con la crescita. E qui entra in gioco il processo di “rigenerazione” voluto dalla Ue, quel Next Generation EU che in Italia pare essere vissuto come un indennizzo dovuto per anni di punitiva austerità che mai è stata davvero tale.

Attorno al “piano di ripresa e resilienza” si è formata una sorta di mistica, che ignora o finge di ignorare le premesse del dissesto italiano, fatto di incapacità a programmare e di una assenza di fiducia tra parti sociali che concepiscono il negoziato con il governo come un gioco a somma zero, nel tentativo di catturare la maggior quota possibile di benefici.

Si è discusso nei giorni scorsi del fatto che la Francia ha già presentato il proprio piano di ripresa e resilienza, con capitoli di intervento già corredati da numeri, mentre l’Italia è passata dall’intenzione di “chiedere un acconto” del Recovery Fund entro fine 2020 alle dichiarazioni su una tempistica di erogazione dei fondi nel primo semestre del prossimo anno. Nell’attesa, eventi simbolici come i cosiddetti “Stati generali” hanno prodotto l’esatto nulla che i più cinici si attendevano.

Anche a pandemia sconfitta, in Europa e nel mondo non si tornerà allo status quo ante economico. Non immediatamente, almeno. È scontato e giustificato attendersi un maggiore intervento pubblico a sostegno alle fasce più deboli della popolazione. Ma anche questo pur necessario aggiustamento poggerà sulla ineludibile premessa dell’esistenza di una cosa chiamata crescita economica.

In Italia pare invece essersi radicata una antinomia tra crescita e redistribuzione che è sempre stata presente nel dibattito pubblico ma che ora viene esplicitata, saldandosi a un’altra credenza, quella che vuole il deficit come motore primo se non addirittura unico della crescita. Il nostro paese si accinge a tentare di amministrare in un quinquennio oltre 200 miliardi di fondi europei.

Secondo la Banca d’Italia, per un quinquennio dovremmo raddoppiare la quota storica di investimento annuo: se tutto andasse nel migliore dei modi possibili, secondo il modello econometrico della nostra banca centrale, potremmo conseguire una espansione di circa lo 0,6 per cento del Pil all’anno. Utile, ma non basta a invertire una tendenza negativa che dura da troppo tempo, e che viene accentuata da una depressione demografica che rischia di rendere infausta la prognosi per il nostro paese.

Dopo aver invocato per anni un fantasioso “piano Marshall”, quasi come se il paese dovesse essere ricostruito dalle macerie di una guerra che in realtà abbiamo soprattutto combattuto contro noi stessi, vivere il Next Generation EU con la stessa mentalità con cui siamo giunti a questo punto servirà solo a certificare il fallimento

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