Legge di bilancio fra destra e stabilità

Il timbro della destra sulla legge di bilancio la rende o no inaccettabile? Da un lato il governo sceglie la stabilità dei saldi complessivi e dell’enorme spesa per sostenere i consumi energetici (21 miliardi su 35). Stabilità che significa innanzitutto stare in Europa accettandone i vincoli e godendone i benefici. Con un debito pubblico di circa 2800 miliardi di euro pari al 150% del Pil c’è poco da scherzare dato che ogni anno bisogna vendere molti miliardi di titoli. Così le scelte del governo si ripercuotono sullo spread che misura la fiducia nell’Italia di chi le presta i suoi soldi. Il barometro segna stabilità anche in questo caso.

Dall’altro lato, però, la destra vuole rimarcare la sua diversità dai governi precedenti con alcune misure simbolo. Valga per tutti l’estensione a 85 mila euro del reddito soggetto all’aliquota unica del 15% per gli autonomi. È una scelta che favorisce una fascia di redditi intermedi (quelli molto elevati non ne risentono, quelli bassi non ne traggono beneficio come spiega l’associazione Acta in questo articolo) che corrispondono ad una base elettorale da sempre riferimento dei partiti di destra. La Meloni fin dal discorso della fiducia aveva citato i “5 milioni di lavoratori autonomi, tra artigiani, commercianti e liberi professionisti” “spesso ingiustamente trattati come figli di un Dio minore”. Tra questi si annida un’evasione fiscale del 68% (Relazione sull’evasione fiscale e contributiva allegata alla Nadef; qui una sintesi) che il governo non intende combattere bensì “prevenire” abbassando l’aliquota Irpef e perpetuando la tradizione italiana dei condoni giustificati perché “molti non ce la fanno a pagare” (come dicono di continuo esponenti della destra senza, peraltro, poter dimostrare tale affermazione) anche se si tratta di cartelle esattoriali risalenti a ben prima della crisi del 2020. Ai lavoratori dipendenti invece viene riservato un trattamento di gran lunga inferiore con un taglio del cuneo contributivo di lieve entità.

La grande iniquità del sistema fiscale italiano più volte dimostrata dai rapporti del Centro studi itinerari previdenziali ne esce, perciò, rafforzata (qui l’ultimo Rapporto) restringendo, di fatto, le possibilità di finanziare i servizi pubblici essenziali come la sanità e l’istruzione e aumentando la pressione fiscale su una piccola parte dei contribuenti (secondo il citato Rapporto il 13% paga il 60% dell’Irpef, qui un approfondimento).

(Foto di Susanne Jutzeler, Schweiz, da Pixabay)

Ragionando in termini di interessi nazionali la prima criticità è, quindi, l’inadeguatezza del sistema fiscale con l’evasione che fa mancare alle casse dello Stato decine di miliardi ogni anno, falsa i dati sui redditi degli italiani (con molti che sono registrati come poveri o con redditi bassissimi pur non essendolo), regala benefici a chi non ne ha diritto (esenzioni e facilitazioni), educa all’illegalità (abuso di false autocertificazioni per ogni genere di beneficio), dirotta risorse verso un assistenzialismo frutto di decenni di evasione fiscale e contributiva (su 16 milioni di pensionati quasi il 50% gode di assegni totalmente o parzialmente a carico della collettività ossia i percettori non hanno versato contributi e quindi imposte; le false pensioni di invalidità furono addirittura teorizzate come ammortizzatore sociale).

Da queste premesse è evidente che la seconda criticità è il rapporto perverso degli italiani con lo Stato fatto di disinteresse e di competizione come se la dimensione pubblica non li riguardasse o fosse una preda da spolpare. Gli italiani si aspettano risarcimenti in forma di bonus o di sussidio per ogni genere di esigenza o di desiderio. Si afferma che l’edilizia in crisi giustificherebbe l’intervento dello Stato con detrazioni fiscali cioè bonus per lavori di ristrutturazione nelle case, ma sono 36 anni che vengono concessi. Se trentasei anni di incentivi fino al superbonus del 110% e al bonus facciate del 90% (con il loro corredo di truffe miliardarie) non sono riusciti a risollevare il settore forse il problema non è quello di continuare ad erogare aiuti pubblici. Per ogni problema c’è un  bonus, ma il vero deficit è nelle strutture che erogano i servizi. Per ristrutturare le villette lo Stato paga il superbonus 110%, ma gli edifici scolastici sono in condizioni pietose. Il bonus mobili ed elettrodomestici arriva ad 8 mila euro, ma le liste di attesa sono scandalose. Il bonus per i diciottenni costa 230 milioni l’anno, ma un premio al personale della medicina d’urgenza promesso per il 2023 viene rinviato al 2024 e questo con i Pronto soccorso al collasso e mentre è in atto la fuga da questo servizio vitale. È la fotografia di una drammatica impotenza e di una follia consolidata. Le contraddizioni sono tante e fanno ormai parte del vissuto degli italiani. Con la pandemia si è raggiunto il massimo della dilapidazione delle risorse pubbliche con quasi 200 miliardi spesi in una molteplicità di erogazioni molte delle quali inutili o inique (sono state risarcite persino le case farmaceutiche e il sussidio per chi rimase senza lavoro nella primavera 2020 fu corrisposto a chiunque ne facesse richiesta senza alcun genere di limitazione).

La terza criticità è la spesa pubblica. L’Italia non è mai riuscita a spendere i fondi europei anche con la politica dei finanziamenti a pioggia di pseudo corsi di formazione professionale e sagre paesane spacciate per iniziative culturali. L’arrivo del PNRR ha messo in luce la grave inadeguatezza degli apparati pubblici e delle amministrazioni regionali e locali che nessun governo è riuscito ad affrontare. La frana di Ischia ha riportato l’attenzione sugli interventi per mettere in sicurezza il territorio. I molti miliardi stanziati negli anni non sono mai stati spesi. È evidente che il problema dell’Italia non è la mancanza di denaro, ma la capacità di spenderlo per impieghi diversi dall’erogazione di sussidi, bonus, assistenza. Gli investimenti non si fanno e le infrastrutture del Paese deperiscono.

A queste criticità la legge di bilancio del governo non dà né può dare risposte perché ognuna di esse rimanda a centri di potere e di interessi consolidati che solo una politica forte potrebbe affrontare nell’arco di svariati anni. D’altra parte gli italiani accettano con rassegnazione che le cose vadano così e non ci sono movimenti che rivendichino una svolta. Sanno che un sussidio si può ottenere, ma un cambiamento vero no. Molte colpe si imputano alla burocrazia che è sempre troppo potente e tanto più lo è quanto più è debole e instabile la politica. Se nemmeno l’emergenza energetica dell’ultimo anno è riuscita a scalfirne l’ottusità e vengono sistematicamente bloccati gli impianti di energie rinnovabili che si potrebbero realizzare è segno che la situazione è compromessa. La politica è preda delle mode e ha voluto inserire nella Costituzione la tutela del paesaggio cioè la dimensione più mutevole che ci sia. Un’arma formidabile per i conservatori di tutte le specie. È proprio vero come si disse una volta che in Italia tanti hanno il potere di veto e nessuno quello di decidere.

BUON 2023!

Claudio Lombardi

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