La legge elettorale non è tutto

Nel 1950 un poli­to­logo desti­nato alla cele­brità, Mau­rice Duver­ger, pub­bli­cava un libro dedi­cato all’influenza dei sistemi elet­to­rali sulla vita poli­tica. Ove rior­di­nava qual­che idea che da sem­pre cir­co­lava tra i pra­ti­coni. Che la pro­por­zio­nale fa cre­scere il numero dei par­titi. Che i regimi mag­gio­ri­tari ridu­cono il numero dei par­titi. Che il mag­gio­ri­ta­rio all’inglese riduce a due i con­cor­renti. Pom­po­sa­mente però dava cre­dito a simili ovvietà attri­buendo loro il nome alti­so­nante di legge.

Duver­ger invi­tava invero alla cau­tela. Le leggi, diceva, fun­zio­nano a seconda di cir­co­stanze e con­te­sti. Fatto sta che l’idea delle leggi ha avuto suc­cesso e che molti altri «scien­ziati» poli­tici si sono cimen­tati nell’affinare o con­trad­dire le leggi di Duver­ger. Di solito pro­met­tendo la ricetta elet­to­rale più appro­priata per pro­durre governi sta­bili, auto­re­voli, rap­pre­sen­ta­tivi e soprat­tutto in grado di con­te­nere la canea dei partiti.

Tra­scorso ben oltre mezzo secolo dal libro di Duver­ger, tempo è venuto tut­ta­via per rove­sciare pro­spet­tiva. L’esperienza inse­gna al con­tra­rio che non sono le leggi elet­to­rali a influen­zare la vita poli­tica, ma che è la vita poli­tica che detta le norme elet­to­rali. La sto­ria, diceva Carl Sch­mitt, la scri­vono i vin­ci­tori. Scri­vono quella pas­sata e pro­vano a scri­vere pure quella futura, pre­scri­vendo regole, anche elet­to­rali, tali da ren­dere irre­ver­si­bile la loro vit­to­ria.
Detto con parole più mode­ste, le classi poli­ti­che ten­dono a per­pe­tuarsi. Le leggi elet­to­rali sono uno degli stru­menti di cui si avval­gono per farlo. Natu­ral­mente, che un gio­ca­tore scriva le regole a sua misura è scon­ve­niente e qual­cuno gri­derà di sicuro allo scan­dalo, ma non è un freno suf­fi­ciente. Non è nep­pure un freno che gli elet­to­rati a volte smen­ti­scano le attese di chi ha scritto le regole. Chi sta al potere vuole norme elet­to­rali su misura e se può prova a far­sele. Dopo­tutto, anche i suoi con­cor­renti fin­gono sem­pre di volere una legge elet­to­rale più one­sta e più rap­pre­sen­ta­tiva, ma in realtà ne vogliono una di loro gra­di­mento, e si bat­tono come pos­sono, per ottenerle.

Pro­viamo con qual­che esem­pio. Quando nel ’58 De Gaulle in Fran­cia adottò il mag­gio­ri­ta­rio con dop­pio turno, lo fece per ren­dere per­ma­nente il pri­mato del suo par­tito. Vice­versa Mit­te­rand intro­dusse nel 1985 una dose di pro­por­zio­nale per favo­rire l’ingresso in par­la­mento del Front Natio­nal a danno della destra post­gol­li­sta. Gli inglesi si ten­gono il loro assurdo regime elet­to­rale sol per­ché con­viene al duo­po­lio conservatori/laburisti. Cui sta benis­simo spar­tirsi l’86 % dei seggi col 66 % dei voti. Quanto all’America, è la patria del ger­ry­man­de­ring. Allor­ché i repub­bli­cani con­qui­stano il governo di uno stato, si fanno un obbligo di ridi­se­gnare i col­legi elet­to­rali in modo da diluire quelli a pre­va­lenza demo­cra­tica.

Anche le classi poli­ti­che ita­liane hanno sovente mani­po­lato, o pro­vato a mani­po­lare, le norme elet­to­rali. Il fasci­smo andò al potere e adottò a sua misura la legge Acerbo. Pure un nostal­gico del pro­por­zio­nale deve ammet­tere che a det­tarla nel 1946 furono i com­po­siti e incerti equi­li­bri poli­tici del momento. Non a caso, nel 1953, a con­clu­sione del quin­quen­nio dega­spe­riano, la Dc provò a pro­lun­garlo tra­mite la legge-truffa, che però fu boc­ciata dagli elet­tori e da una vasta mobi­li­ta­zione popo­lare. Negli anni Ottanta la discus­sione sulla riforma elet­to­rale è ripresa per­ché gli equi­li­bri di potere sta­vano cam­biando e in tanti vole­vano acce­le­rare il declino della Dc rifor­mando a loro bene­fi­cio la legge elet­to­rale. Le parole d’ordine del momento — sta­bi­lità, mora­lità e alter­nanza — erano puro mar­ke­ting, con­fer­mato dal suc­ces­sivo ven­ten­nio: il più insta­bile e più immo­rale della sto­ria del paese. Non riu­scendo a scon­fig­gere la Dc alle ele­zioni, si vol­lero cam­biare le regole. E poi­ché effet­ti­va­mente i rap­porti di forza sta­vano cam­biando, ne prese atto per­fino la Corte costi­tu­zio­nale con una sin­go­lare sen­tenza che ammet­teva lo svol­gi­mento di un refe­ren­dum su un tema, quello delle regole elet­to­rali, che ne era escluso. La Dc provò anche a limi­tare i danni col Mat­ta­rel­lum, ma chi ne colse i frutti fu Ber­lu­sconi. Il quale ha sua volta nel 2005 si scrisse su misura il Por­cel­lum. Renzi non è che un epi­gono.

In con­clu­sione. Le leggi elet­to­rali non si scri­vono su Giove. Si scri­vono sulla terra. E non fanno mai con­tenti tutti. Non scan­da­liz­zia­moci troppo per la brutta legge som­mi­ni­stra­taci da Renzi. Il quale ha potuto farlo sol per­ché i suoi avver­sari sono ete­ro­ge­nei, deboli e disu­niti. È la demo­cra­zia, bel­lezza. Non ha nep­pure senso addos­sare a una legge elet­to­rale, per quanto brutta, il lamen­te­vole stato in cui versa la demo­cra­zia. Che è come la fa sia chi detiene il potere, sia chi subi­sce quel potere. Anzi: la demo­cra­zia ce la fac­ciamo tutti i giorni e i peri­coli mas­simi essa li corre pro­prio quando ci si con­vince che basti affi­dare la sua difesa alle regole: alla costi­tu­zione, ai diritti e alle leggi elet­to­rali. La demo­cra­zia, se la vogliono, la difen­dono i cittadini.

Alfio Mastropaolo (Tratto dal Manifesto del 26 maggio 2015)

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