Le tante lezioni dell’emergenza coronavirus

In poco più di dieci giorni l’Italia ha scoperto di essere uno dei focolai del contagio da COVID19 e la vita degli italiani è cambiata. Certo è legittimo attendersi che la Cina faccia qualcosa nel futuro per evitare che altre epidemie partano da lì. E’ vero però che così è sempre stato anche quando il mondo si muoveva sui piedi dei viaggiatori o sulle ruote dei carri trainati dai buoi. Quindi lasciamo perdere la globalizzazione che non c’entra nulla. Nel 1350 l’epidemia di peste che sterminò oltre il 30% della popolazione europea nacque tra Mongolia e Cina e arrivò in pochi anni fin qui.

È stato opportuno bloccare i collegamenti aerei con la Cina? Probabilmente è stato un errore. Forse la diffusione del contagio può essere stata addirittura favorita dalla decisione del governo perché ci si è privati della possibilità di tracciare i viaggiatori che comunque con un scalo arrivavano da noi. Stretto tra la pressione leghista che imprecava contro i cinesi (ma soprattutto contro i migranti dei barconi) e un’opinione pubblica in ansia e desiderosa di decisioni esemplari, il governo ha sbagliato. Il blocco dei voli è, comunque, ormai una questione superata perchè l’ipotesi che sempre più si fa strada è quella di un contagio che data a ben prima che il caso esplodesse in tutta la sua drammaticità. Il ritardo con il quale le autorità cinesi hanno preso atto dell’epidemia è stato probabilmente più che sufficiente a diffondere il coronavirus in tutto il mondo.

È stato opportuno isolare i paesi dove è stato individuato un focolaio (Codogno, Vo’ e gli altri)? Gli esperti dicono di sì. Si poteva fare a meno di bloccare Milano? Forse, ma qui la risposta è più difficile. L’evidenza dei fatti dice che un rischio c’era, ma il danno di immagine è stato enorme.

Però il guaio è fatto e l’Italia intera, di fatto, adesso è in quarantena. I viaggi all’estero degli italiani per turismo o lavoro sono diventati molto difficili se non impossibili e così quelli degli stranieri sul nostro territorio. Anche gli spostamenti interni sono problematici dovendo tener conto dei divieti e delle misure precauzionali che colpiscono le persone e anche le merci. Le esportazioni rallentano e così le importazioni buona parte delle quali servono ad alimentare l’industria manifatturiera. Si incrementa il telelavoro è vero, ma a ben poco serve quando si tratta di far funzionare gli impianti produttivi. Se bisogna limitare i contatti fisici ed evitare i luoghi affollati si colpisce al cuore la sostanza dell’organizzazione sociale. Un teatro, un cinema, una mostra, tutti gli spostamenti con mezzi di trasporto pubblico diventano causa di preoccupazione. Anche un ambulatorio, una pizzeria, una serata a casa di amici. Se dura poco si sopporta e non ci sono molti danni. Se si prolunga per mesi diventa un dramma. E questo senza considerare l’aspetto sanitario cioè il numero degli ammalati, dei casi gravi e dei morti.

Nell’emergenza tutti i problemi si amplificano e vengono messi a dura prova i limiti del sistema istituzionale e amministrativo. Che sono tanti. Il primo è la frammentazione delle sedi decisionali che è una nostra caratteristica. In Italia siamo specialisti nella difesa degli spazi di autonomia che facilmente sconfinano nel potere di blocco. In queste settimane il governo ha faticato a far prevalere la sua funzione di indirizzo e coordinamento complice un assetto istituzionale che assegna alle regioni un potere eccessivo a cominciare dalla sanità che è regionalizzata. Prima che il coronavirus occupasse la scena era in campo la questione dell’autonomia rafforzata chiesta da alcune regioni. Ebbene proprio questa prova dovrebbe spingere tutti a imboccare la strada al contrario: ridurre e non aumentare le autonomie regionali, semmai favorire la loro aggregazione e il superamento degli statuti speciali.

Ora che siamo nei guai ci accorgiamo che i margini di manovra sono limitati. Abbiamo fatto crescere il debito quando potevamo ridurlo e oggi che dovrebbe accadere il contrario ci accorgiamo di avere le mani legate. Le ripercussioni economiche saranno importanti e riserve non ce ne sono. Certo si farà più deficit di quello previsto, ma è solo altro debito non soldi regalati. La fragilità italiana è anche questa. L’unico tesoro del Paese è la produzione di beni e servizi (turismo incluso). Se rallenta sono guai. Non è il debito che fa crescere.

La fragilità è anche quella, però, di una frattura tra nord e sud e di una lentezza soffocante a realizzare progetti e investimenti pubblici e privati. Il ponte di Genova lo si sta costruendo a tempi di record perchè è stata messa da parte la montagna delle norme e della burocrazia. Ci vorrebbe il coraggio di metterla da parte definitivamente. Ora che servono come il pane gli investimenti pubblici scopriamo quanto pesi non poterli fare rapidamente.

Il più grande aiuto alle imprese è questo, non i soliti soldi che durano quello che durano e poi finiscono.

E poi c’è chi esercita il potere. Bisogna dire la verità: non solo i presidenti delle regioni, ma anche i rappresentanti del governo nazionale a cominciare dal Presidente del Consiglio hanno mostrato più di un’incertezza. Molte presenze in televisione che hanno banalizzato il loro ruolo, ma scarsa autorevolezza. È una questione vecchia che mette insieme legittimazione popolare e solidità istituzionale, selezione e preparazione. In altre nazioni c’è, da noi molto di meno. Soltanto il Capo dello Stato è riuscito a mantenere il profilo elevato che la sua carica richiede, ma è così perché Mattarella è sempre stato ben attento a non banalizzarsi cedendo al richiamo del consenso e dell’esibizionismo.

Purtroppo la politica è piegata alle esigenze della propaganda ed ha un potente alleato nel sistema informativo. Giornalisti e commentatori vari hanno trasformato l’emergenza coronavirus in un gigantesco spettacolo che ha eccitato ed allarmato l’opinione pubblica. Così nessun politico si sente libero di decidere senza tenere conto degli umori dell’opinione pubblica e senza telecamere al seguito.

C’è anche qualcosa di positivo e bisogna ricordarlo. Innanzitutto il servizio sanitario nazionale. La sanità pubblica si conferma un punto di riferimento essenziale per chiunque. Nei momenti difficili gli italiani sanno che il servizio sanitario nazionale pur ammaccato e indebolito da risorse scarse e dai deficit di gestione li può assistere. E poi ci sono i ricercatori. Abbiamo scoperto che esistono e anche se in precarie condizioni contrattuali e retributive si rivelano una salvezza e alleati preziosi dei medici. Infine la Protezione civile, le forze dell’ordine e i tanti che sanno compiere il loro dovere e dei quali ci accorgiamo in queste situazioni.

Ci sono però dei costi da pagare. Non si può far finta di non saperlo. Dobbiamo prendere coscienza che c’è un ordine di priorità: al primo posto la salute non i bonus e gli sconti fiscali, non la pensione anticipata pagata dallo Stato. Al primo posto anche lo sviluppo e non i redditi e le pensioni di cittadinanza (o persino l’eredità di cittadinanza). Ci sarà mai una classe dirigente capace di stilare il vero ordine delle priorità per il bene dell’Italia o dovremo continuare ad essere abbindolati dalle promesse e dai regalini per conquistare il nostro consenso?

Come si svilupperà il contagio non si sa, ma per i cittadini resta un grande insegnamento: quando è in gioco qualcosa di importante non vale più “ognuno per sé”. Bisogna sentirsi uniti e solidali perché anche un piccolo aiuto può rivelarsi prezioso e il concetto di collettività riacquista il suo senso

Claudio Lombardi

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