Nuovi italiani: un futuro di tanti colori (di Elio Rosati)

In un contesto di crisi generale dal punto di vista economico, politico, culturale, dove i riferimenti del novecento sono scomparsi e i nuovi faticano ancora a definirsi, quale è il ruolo della cittadinanza? Gli approcci al tema sono diversi e tutti meritevoli di attenzione. Ma qui, forse, è più utile avviare il ragionamento rimanendo sulla questione che per noi è centrale e che è proprio la cittadinanza.

Nella sua forma storica e nella sua evoluzione la cittadinanza nasce per definire, delimitare, riconoscere chi è parte di un dato contesto culturale, civico, sociale, economico, politico e chi ne è fuori. Far parte significa concretamente poter godere dei diritti, delle agevolazioni, dei servizi che uno Stato eroga. Chi non ne fa parte è escluso da questi benefici. È esattamente questa la situazione di chi chiamiamo immigrato nella sua cruda semplicità.

Fino, possiamo dire, alla caduta del Muro di Berlino (1989) il tema dell’immigrazione qui da noi era ancora marginale. Caduto il Muro si avvia nel nostro Paese un flusso ininterrotto di persone provenienti inizialmente dall’Albania e poi da un po’ tutti i paesi dell’Est. Negli anni 90 si avvia anche un flusso dal Sud del mondo, dal continente africano e dai teatri delle tante guerre regionali che si sono succedute negli ultimi decenni.

La cosa strana è che l’esportazione della guerra in contesti regionali distanti da casa nostra è risultata politicamente più sopportabile e giustificabile di fronte alla nostra opinione pubblica mentre, invece, non sono state accettate le conseguenze più ovvie delle guerre: la fuga delle popolazioni civili alla ricerca di migliori condizioni di vita.

Le guerre, si sa, producono rifugiati. E i rifugiati, i poveri cercano condizioni migliori dove “morire”. Le condizioni migliori sono rappresentate anche dal nostro Paese che, spesso, è stato anche quello più facilmente raggiungibile, una specie di porta d’ingresso in Occidente. Praticamente la nuova America per milioni di persone.

Logicamente il frutto avvelenato del comportamento delle politiche che prevedono l’uso della guerra una volta che ti piomba in casa deve essere prima minimizzato, nascosto, disconosciuto. Poi, a causa anche di fenomeni delinquenziali che esistono in qualsiasi società umana, il fenomeno viene rubricato come problema di ordine pubblico. A questo punto alcune forze politiche iniziano a cavalcare le insicurezze della popolazione. Per avere degli esempi non è nemmeno necessario risalire ai primordi della Lega, basta ricordare la campagna elettorale tutta centrata sulla sicurezza del sindaco di Roma Gianni Alemanno.

Oggi sono ormai passati oltre venti anni dai primi sbarchi sulle coste pugliesi. Ma il tema della cittadinanza continua, in modo carsico, a spuntare e ad essere utilizzato come arma per delimitare, definire, riconoscere diritti a caio o a dire a tizio che è fuori da questi diritti. La questione sul punto ora è ius soli o ius sanguinis per i bimbi nati in Italia da genitori stranieri.

Al di là dei formalismi giuridici, che hanno comunque una loro rilevanza, quello che però appare ancora carente è una riflessione che parta dalle persone in carne e ossa. Dal mio punto di vista la questione è semplice e complessa allo stesso tempo. Semplice perché le vie da seguire sono due: proseguire nella impostazione classica riconoscendo diritti di cittadinanza solo a chi ha entrambi i genitori (o almeno uno) italiani; oppure aprire il recinto, abbatterlo, renderlo includente per tutte le persone che lo richiedono. Già perché il punto è proprio qui: chi richiede di diventare cittadino italiano lo deve poter fare e in tempi certi ottenere la cittadinanza sottoponendosi a obblighi e prescrizioni per la corretta vita civile quali pagare le tasse, riconoscere le leggi della Repubblica italiana, far parte della società italiana in modo produttivo. Difficile? Sembra un’impresa titanica. Salvo poi dimenticarci i dati economici che ci dicono che gli immigrati pagano le pensioni dei nostri nonni (gli immigrati versano 7 miliardi di contributi all’Inps, e hanno 993 mila figli minorenni), contribuiscono alla crescita del paese, aprono canali di comunicazione con altri mondi, i loro paesi di origine. Non parlo di chi nasce in Italia, frequenta le scuole e cresce come tutti gli altri bambini immerso nella cultura del nostro Paese assorbendola dai mille canali della vita sociale. Non ne parlo perché è ovvio che questi dovrebbero essere italiani fin dalla nascita.

Passiamo, invece, alle note stonate. Ovvero per fare un cittadino non basta il “sangue”. Chi nasce italiano da italiani magari non paga le tasse, ruba, spreca i beni comuni. Questo “cittadino” non perde il diritto di cittadinanza che ha acquisito per nascita senza alcun merito (parola che va molto di moda). Questo cittadino non fa parte anche lui di una casta, magari più indefinita, meno visibile, meno arrogante del gioielliere che dichiara 15.000 euro annui o del ricco professionista capace di evadere migliaia di euro annui? Allora la medaglia bisognerebbe coniarla da tutte e due le parti. Da un lato la possibilità di accedere al diritto di cittadinanza, dall’altro la possibilità di perderla. Sinceramente sarebbe divertente vedere cosa potrebbe accadere. Chiaramente questa è solo una provocazione utile a mostrare un punto di vista diverso a chi tratta con arroganza e disprezzo gli immigrati, ma si guarda bene dal fare il suo dovere di cittadino o dall’apprezzare chi lo fa pur non essendolo.

Ma lasciamo perdere le provocazioni. Ciò che conta è che bisogna stare dalla parte del futuro. E il futuro è fatto di tanti colori.

Elio Rosati

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