Riflessioni sugli USA dopo le elezioni: diseguaglianza e crisi (di Pierluigi Musarò)

Pubblichiamo una sintesi di un articolo di Pierluigi Musarò sulle elezioni presidenziali USA apparso su  www.lib21.org al quale rinviamo per la versione integrale.

Obama è stato rieletto, ma non in mezzo all’entusiasmo che salutò la sua prima, storica, vittoria. L’America che si risveglia dopo la notte delle elezioni assomiglia più a un incubo che a un sogno.  Più del 15% della popolazione vive sotto la soglia della povertà, 50 milioni di americani. Si tratta della percentuale più alta dal 1993 a oggi. In termini assoluti è il numero maggiore di “poveri” dai tempi della Grande Depressione. Oltre 50 milioni di americani sono inoltre privi di qualsiasi copertura sanitaria. Con il reddito medio di un nucleo familiare che è sceso sotto i 50mila dollari ed è, oggi, il 7% in meno rispetto a 12 anni fa. La strada di Obama è decisamente in salita, se vuole arrivare davvero a contrastare quell’insopportabile disuguaglianza che mina la democrazia.

Mentre Obama e Romney facevano a gara per aggiudicarsi i voti della middle class (da non dimenticare che l’80% degli americani si considerano tali), policy experts ed economisti da premio Nobel come Stiglitz o Krugman hanno denunciato il circolo vizioso tra disuguaglianza e crescita, evidenziando come siano due facce della stessa medaglia. Obama ne è consapevole, ma ha davanti un lungo trend da fronteggiare. E non sarà facile.

Il liberalismo economico che ha preso forma fra gli anni ‘70 e ‘90 del secolo scorso è in crisi, ma non lo è perché ha perso la battaglia delle idee. Lo è perché non ha saputo essere all’altezza dei problemi che ha contribuito a creare, e, soprattutto, non è stato capace di produrre un nuovo modello di coesione sociale, determinando, anzi, una scissione della società che contrappone gli interessi dell’1% a quelli del restante 99%. Se non fosse ancora chiaro come il sogno si trasforma in incubo, basta uno sguardo sulla crescita della povertà negli Stati Uniti: un quadro alquanto drammatico. Più del 15% della popolazione vive sotto la soglia della povertà. Parliamo di 50 milioni di americani. Si tratta della percentuale più alta dal 1993 a oggi. In termini assoluti è il numero maggiore di “poveri” dai tempi della Grande Depressione. Oltre 50 milioni di americani sono inoltre privi di qualsiasi copertura sanitaria. Con il reddito medio di un nucleo familiare che è sceso sotto i 50mila dollari ed è, oggi, il 7% in meno rispetto a 12 anni fa.

C’è poi un altro dato drammatico: lo scarto tra redditi più alti e redditi più bassi che è ai livelli degli anni ‘20 del secolo scorso. Basti pensare che il reddito dell’1% più ricco del paese è cresciuto di quasi 3 volte nell’ultimo trentennio, mentre quello dei 9/10 degli americani non è praticamente aumentato. Non parliamo nemmeno di quello dei super-ricchi al quale hanno contribuito grandemente gli sgravi fiscali. Nel 1950 l’aliquota massima in America era il 91% mentre oggi si aggira sul 35%. Warren Buffett, il terzo uomo più ricco del mondo, spiega che l’anno scorso ha pagato di tasse il 17% del suo reddito, mentre le venti persone che lavorano nel suo ufficio hanno sborsato il 36%.

Le iniquità di oggi sono frutto di un processo che si è dispiegato negli ultimi 30/40 anni, in conseguenza di trasformazioni strutturali dell’economia statunitense e mondiale – che hanno di fatto aumentato il gap tra lavoratori con alti livelli d’istruzione e qualifica professionale e lavoratori generici e non qualificati – ma anche di precise scelte politiche, dai tagli alle tasse sui redditi e capitali alla deregulation del settore finanziario. Tanto da parte dei repubblicani che dei democratici.

Il grido indignato delle  proteste all’insegna del We are the 99 percent si ergeva tra i grattacieli dai vetri opachi per criticare proprio il vuoto lasciato da una politica alternativa che ancora non si manifesta con forza.

L’insostenibile disuguaglianza sta distruggendo il famoso American Dream, il mito dell’ascesa sociale che ognuno di noi associa con questa terra, e che ogni candidato presidente pone al centro della sua narrazione. Sembra che il contratto sociale tra gli ordinary citizens e le élite sia ormai ridotto a brandelli. Se è vero che la Meritocracy corrisponde da secoli alla bandiera degli Stati Uniti è pure vero che, dagli anni ’60, i diversi gruppi di uomini e donne che sono arrivati al potere hanno imparato ad abbracciare la crescente disuguaglianza che li ha portati al top della scala sociale. Proprio la loro ascesa ha accentuato la distanza sociale, generando al contempo una nuova élite.

Se non fosse ancora chiaro, si tenga presente che nel 1970 negli Stati Uniti il reddito al lordo delle tasse di un top manager era circa 30 volte più alto di quello del lavoratore medio, oggi la distanza è pari a 263 volte. Dalla fine degli anni ’70, il reddito al netto delle tasse del quinto più ricco della popolazione è cresciuto cinque volte più velocemente di quello del quinto più povero E il punto dolente è che la crescita delle disuguaglianze ha lasciato totalmente imperturbabili i difensori di questo “capitalismo esclusivo” sotto un profilo ideologico.

Che fare dunque? Se vogliamo salvarci tutti, bisogna Salvare il capitalismo dai capitalisti (che è il titolo di un famoso libro dell’economista Zingales) cioè non bisogna dimenticare come lo Stato democratico e il suo potere di tassare, spendere e regolare rimanga il principale strumento per la società di condividere la responsabilità tra i suoi membri.

Per salvare dunque il capitalismo dai capitalisti dovremmo allora rivedere i meccanismi di legittimazione delle élite all’interno della democrazia. Perché, comunque, chi si vota alla Presidenza degli USA è uno dell’élite dei milionari. Ci avete mai pensato che se i milionari americani fossero un partito politico, rappresenterebbero a malapena il 3% delle famiglie americane, eppure hanno una maggioranza al Senato, la maggioranza alla Camera, la maggioranza della Corte Suprema e un uomo alla Casa Bianca? E se gli operai americani fossero un partito politico?  Rappresenterebbero più della metà del paese, ma con il sistema “meritocratico” attuale non ottengono più del 2% dei seggi al Congresso. Che sia possibile cambiare questa tendenza?

In attesa di trovare la risposta, riflettiamo sul fatto che nel 1945, le due camere vedevano il 98% di maschi, mentre oggi le donne sono quasi il 20%. Ancora poche, of course, ma forse un segno che il Millionaires Party non è poi così invincibile.

Pierluigi Musarò da www.lib21.org

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