La disuguaglianza: il problema della nostra epoca (di Lapo Berti)

Se ci chiedessimo qual è il problema che più ha colpito e sensibilizzato l’opinione pubblica mondiale dentro gli avvitamenti della crisi, è probabile che la maggior parte di noi risponderebbero: la disuguaglianza. In nessun periodo della storia moderna si è assistito a una così grande, e intollerabile, divaricazione fra ricchi e poveri. I trent’anni di governi dominati dall’influenza di un liberismo cieco e socialmente irresponsabile hanno consentito che fra i più ricchi e i più poveri si creasse una divaricazione che nessuna ragione economica è in grado di giustificare. La ricchezza in mano al 10% più ricco della popolazione si è accresciuta a dismisura, raggiungendo e talora superando il 50% della ricchezza totale, mentre i redditi e la ricchezza posseduta dalla stragrande maggioranza dei cittadini rimanevano immobili o si riducevano. Una teoria sciagurata e manifestamente sbagliata, secondo la quale se si lascia che i ricchi si arricchiscano ulteriormente è l’intera società a beneficiarne perché i soldi, letteralmente, “gocciolano giù” (trickle down) e, prima o poi, arrivano a tutti, ha giustificato e promosso, per tre decenni, una rincorsa sfrenata e indecente degli stipendi concessi ai super manager indipendentemente dai risultati che conseguivano. Non è un’idea nuova. Già J. Fitzgerald Kennedy predicava che “l’alta marea solleva tutte le barche”. Insomma, quello che conta è che il reddito aumenti, non importa com’è distribuito. Ma oggi la disuguaglianza dei redditi ha raggiunto livelli intollerabili moralmente e socialmente e, soprattutto, priva di qualsiasi giustificazione economica. Non è più possibile considerarla un male necessario.

La ricchezza eccessiva minaccia la coesione sociale

Lo spettro dello “sterco del diavolo” è tornato a proiettare la sua ombra inquietante su di una società che, dal lontano Medioevo, non si è mai del tutto liberata di un timore atavico, quasi innato, nei confronti della ricchezza e di coloro che la maneggiano. L’antica e radicata diffidenza nei confronti dell’usura, nei confronti del “denaro che genera denaro” ovvero nei confronti della finanza, tradisce la percezione, forse inconsapevole, ma precisa che vi sono limiti alla disuguaglianza che una società può tollerare senza rischiare di disintegrarsi. Oltre quel limite c’è la dissoluzione del patto sociale, lo sfaldamento della fiducia, che è ciò che consente a una società di esistere rendendo possibile la cooperazione fra estranei, che è un altro modo per dire la civiltà.

A lungo, nel corso dei secoli, si è tentato di porre un limite alla ricchezza eccessiva o, quanto meno, all’esibizione sfrontata del consumo opulento. L’obbligo sociale di devolvere in beneficenza una parte delle proprie ricchezze, quasi una ridistribuzione volontaria del reddito e della ricchezza, come le leggi suntuarie che punteggiano l’evoluzione dei costumi sociali nei secoli che precedono il capitalismo stanno lì a testimoniare della costante preoccupazione per un ordine sociale che vede nella ricchezza esorbitante, nel potere economico di pochi, una minaccia mortale. Poi, il capitalismo arrembante ha cancellato tutte queste preoccupazioni, frutto di una sapienza millenaria, e, all’insegna del motto “Arricchitevi!” ha occultato il problema sociale della ricchezza sotto l’illusione di un benessere economico alla portata di tutti e, soprattutto, senza limiti. Il potere economico privato ha celebrato i suoi trionfi.

Come tante delle cose che hanno segnato la modernità, è negli Stati Uniti che, per la prima volta, ci si è resi conto che, quando il potere economico in mano ai privati raggiunge proporzioni che lo rendono capace di dominare in maniera incontrastata e di sottrarsi alle regole cui tutti obbediscono diventa un pericolo per la democrazie e si rivela incompatibile con qualsiasi ordine sociale. E’ lì che, per la prima volta, si è posto il problema di porre sotto controllo il potere economico per contrastare gli effetti perversi che può produrre sull’ordine sociale.

Nel 1890 è stata creata la prima autorità antitrust cui era affidato il compito di contrastare i tentativi di creare aggregazioni di potere economico in grado di condizionare gli sviluppi della vita sociale e di inquinare o addirittura mettere fuori gioco i meccanismi della democrazia. A distanza di più di un cinquantennio, l’esempio degli Stati Uniti è stato seguito dai maggiori paesi europei e ha trovato finalmente una sua codificazione nel Trattato di Roma che istituiva la Comunità europea. Per tutto un secolo, ci siamo illusi che fosse sufficiente affidare allo stato il compito di sorvegliare il potere economico per impedire che esso producesse effetti devastanti per l’ordine sociale. Si pensava che la disciplina della concorrenza fosse sufficiente a far sì che il potere economico rispettasse le regole che presiedono al buon funzionamento di una società democratica. Abbiamo visto che non è così. Le imprese sono costantemente impegnate, talora con un imponente dispendio di risorse, a contrastare e aggirare i vincoli della concorrenza, favorite, a livello globale, dall’assenza di istituzioni di controllo capaci di agire su scala planetaria. Abbiamo visto che i più poderosi e rovinosi cartelli si sono formati proprio nell’arena globale. A fronte di queste esorbitanti aggregazioni di potere, le autorità antitrust sono spesso disarmate e talora esposte al rischio di essere “catturate” dalle grandi imprese globali che dovrebbero controllare e tenere a freno.

Il “compromesso keynesiano”, che ha dominato la scena economica e politica dagli anni ’30 agli anni ’70 del secolo scorso, è stato forse il tentativo più avanzato, e riuscito, di contemperare le pulsioni socialmente distruttive del capitalismo con le esigenze dell’equità, della giustizia, della piena occupazione, che stanno alla base del patto sociale democratico, tramite estesi programmi di ridistribuzione del reddito. Ma anch’esso non ha retto alla pressione del capitalismo globalizzato e dell’impazzimento della finanza. A partire dagli Stati Uniti, il potere economico senza limiti ha fatto piazza pulita di tutte le regole sociali.

Il problema del potere economico

Il potere economico è una brutta bestia. Non si lascia domare facilmente e usa brutalmente la sua enorme forza per piegare ogni paletto, per travolgere ogni ostacolo che si opponga alla sua illimitata volontà di dominio. Le normative antitrust e le politiche ridistributive, per quanto efficaci, si sono dimostrate, alla fine, impotenti.

Le nostre costituzioni democratiche, figlie del costituzionalismo settecentesco, sono nate per disciplinare una volta per tutte l’esercizio dei poteri da cui dipende il funzionamento della società. I poteri sono stati separati e si sono cercate forme di bilanciamento reciproco. Ma si è trascurato il potere economico, forse perché allora non era così visibile e dirompente. Bisogna colmare quel vuoto.

Il potere economico eccessivo non può essere trattato come una semplice distorsione che si può correggere con qualche norma che lo disciplini. La necessità di sottoporre a controllo il potere economico eccessivo deve entrare a far parte, in maniera esplicita, del patto democratico. Il patto costituzionale che regge e rende possibile la convivenza all’interno di un regime democratico dev’essere riscritto per accogliere una disciplina del potere economico che ne disinneschi il potenziale distruttivo, senza eliminare l’incentivo del guadagno che è parte integrante delle società in cui viviamo. Occorre porre un limite all’accumulazione della ricchezza in mani private e alla concentrazione di potere che ne deriva. E questo limite, lo ripeto, dev’essere inscritto nella legge fondamentale, deve entrare a far parte del patto costituzionale che sta alla base del nostro ordinamento.

E’ questa la prima e principale sfida che dobbiamo affrontare per cominciare a costruire la società del ventunesimo secolo. Solo se si dà una risposta di sistema al problema del potere economico eccessivo si può tentare di dar vita a un nuovo “compromesso keynesiano” che ci consenta di superare la crisi di paradigma in cui siamo immersi.

Lapo Berti da www.lib21.org

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