Il paradosso della democrazia dai conti pubblici alle sfide del mondo globalizzato (di Claudio Lombardi)

Interessante analisi di Adriano Bonafede e Massimiliano Di Pace su Repubblica-affari e finanza di oggi. Il tema è l’effetto delle politiche dei governi Berlusconi negli ultimi dieci anni sull’entità del debito pubblico, sulla crescita del Pil, della spesa pubblica e del prelievo fiscale.

I numeri del rapporto debito pubblico/PIL  parlano chiaro. Si parte dal 2000 con il 109,2%, nel 2001 siamo al 108,8%, nel 2002 al 105,7%, nel 2003 al 104,4%, nel 2004 al 103,9%, nel 2005 si risale al 105,9% e nel 2006 al 106,6%.

Prendendo in considerazione gli anni del governo Berlusconi 2001-2006, anni di stabilità politica e di favorevoli condizioni economiche (la prima crisi negli Usa inizierà nella seconda metà del 2007), si passa dal 108,8% al 106,6%, ovvero il debito diminuisce in rapporto al Pil del 2,2%. Poco, molto? Considerando un ampio arco di tempo, la stabilità politica e le condizioni dell’economia e mettendo a confronto tutto ciò con le precarie condizioni della finanza pubblica italiana  che, all’avvio dell’euro, non rispettava assolutamente il parametro del 60% del rapporto debito/Pil fissato nei trattati, ma si era impegnata a ridurlo progressivamente, si può tranquillamente affermare che il risultato di cinque anni di governo è stato nettamente insufficiente.

Se poi si guarda agli anni successivi si constata che questo giudizio è fin troppo ottimistico.

Nel 2007 il rapporto debito/Pil va al 103,6% con una diminuzione, in un solo anno, del 3%. Cosa era successo? Era cambiato il governo nel corso del 2006, si era formato il governo Prodi che, pur gravato da una scarsissima maggioranza e minato dai contrasti interni, riuscì ad invertire la rotta e a raggiungere quel risultato straordinario.

Nel 2008 la coalizione di Berlusconi vince di nuovo le elezioni e il debito ricomincia subito a salire: 106,3% nel 2008, 116,1% nel 2009, 119,1% nel 2010 e nel 2011 le stime indicano una crescita ben più pesante. In pratica, in pochi anni, il debito pubblico italiano è diventato una palla al piede per l’Italia e per l’intera Europa e questo per l’inettitudine conclamata della maggioranza di centrodestra che ha disseminato il suo cammino di frottole e illusioni, ma ha causato un danno reale gravissimo agli italiani con un malgoverno simile a quello conosciuto negli anni peggiori di tangentopoli. La formula magica è stata: illudere la massa con provvedimenti truffaldini come l’abolizione dell’ICI (pagata comunque con il dissesto delle finanze locali) ed esibendo un ottimismo becero che non aveva nessun fondamento nella realtà; e lasciare campo libero nella gestione del denaro pubblico e degli apparati pubblici alle cricche e agli incompetenti.

Ormai si è capito che la crisi è stata l’occasione per nascondere un bel po’ di malefatte a cominciare dall’assoluta incapacità di guidare il Paese nello sfruttamento delle sue potenzialità economiche. Non a caso il Pil nel decennio 2001-2010 è cresciuto in media dello 0,4% l’anno mentre negli altri paesi europei a noi paragonabili la crescita è stata sempre oltre il doppio di quella italiana (media UE 1,4%).

Come ricordano gli autori dell’articolo “se vi è stato un miracolo di Berlusconi in Italia, è stato quello di avviarne in maniera inarrestabile il declino economico”. Anche i dati sul prelievo fiscale confermano che si è fatto il contrario di quello che è stato fatto credere agli italiani: in un decennio il gettito fiscale è aumentato del 33,7%, ben l’11% in più dell’incremento dei prezzi. La stessa cosa è accaduta con la spesa pubblica aumentata del 46,5% fra il 2000 e il 2010 (da 542 mld di euro a 794 mld di euro).

Bonafede e Di Pace concludono l’analisi con una considerazione amara: “insomma, l’imprenditore che si era presentato agli italiani come l’homo novus della politica, capace di rimettere a posto i disastrati conti dell’Italia, in realtà è stato l’ennesimo assaltatore della diligenza della spesa pubblica, tanto da dare quasi il colpo di grazia alle nostre finanze”.

Una considerazione ancora più amara deve essere fatta sulla politica. Chi si illude che le classi dirigenti che detengono nelle loro mani i poteri che in democrazia vengono concessi a chi riscuote il consenso degli elettori agiscano sempre per il bene della collettività si sbaglia di grosso.

Croce e delizia di ogni democrazia è la ricerca del consenso. Non se ne può fare a meno ovviamente, ma crea le occasioni perché la selezione dei rappresentanti politici non si faccia sulla capacità di governare, sulla lealtà e sulla qualità dei programmi. Troppo spesso, infatti, il rapporto con i cittadini è basato su illusioni e promesse irreali oppure sulla cultura dello scambio di favori che permette ai politici di fare quello che vogliono in cambio della soddisfazione di interessi personali degli elettori.

In tutti i casi la conseguenza sarà la selezione dei peggiori fra i rappresentanti politici che si faranno forti della mancanza di cultura democratica e della prevalenza dell’individualismo egoista sugli interessi della collettività.

È stata già osservata la stranezza del caso italiano che porta ad escludere dal governo i partiti quando si verificano situazioni di emergenza quasi si trattasse di ostacoli alla soluzione dei problemi. I governi tecnici nascono sempre dal fallimento della politica rappresentata dai partiti e gettano un’ombra sinistra sulla salute del nostro sistema democratico.

Anche guardando a quel che accade in altri paesi occidentali si ha l’impressione che i tradizionali percorsi di formazione del consenso non bastino più. Il mondo oggi è più complicato per tutti e non si può tornare al passato quando ogni Stato faceva per conto suo difendendo la sua moneta, i suoi commerci, le sue conquiste coloniali (quando c’erano) e ogni tanto scoppiava una guerra per sistemare le controversie più difficili. Dopo la seconda guerra mondiale, con la terra piena di armi atomiche e con nazioni di quello che era il terzo mondo che sono diventate potenze economiche e militari mondiali, con l’interdipendenza fra le economie quell’assetto porterebbe al disastro anche più rapidamente che nel passato. Per questo il consenso basato sulle semplificazioni e sulle illusioni oggi è un pericolo.

Una vera cultura democratica è quella che mette i cittadini in grado di capire e di valutare  le strategie che vengono proposte e l’impatto delle politiche che vengono praticate. La partecipazione serve a questo e costituisce una grande riserva di intelligenza e di competenza senza le quali nessuna elite per quanto preparata riuscirà a superare i paradossi della democrazia che vive di consenso,  ma dal consenso sbagliato può essere distrutta.

Claudio Lombardi

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