Uscire dall’emergenza coronavirus?

Timidamente si comincia a parlare di rimettersi in moto. Ne parla il Comitato tecnico scientifico che assiste il governo. Ne ha parlato Renzi ed è stato fin troppo esplicito indicando delle date: da metà aprile ripresa graduale delle attività e sblocco della vita civile. Ovviamente ha suscitato, come è consuetudine, un’ondata di polemiche. Ma programmare il futuro e individuare le soluzioni è un obbligo per chi fa politica.

Cento professori universitari, medici, biologi e scienziati hanno sottoscritto un appello con il quale si chiede di impostare una strategia di uscita dall’emergenza (https://www.ilfoglio.it/scienza/2020/03/28/news/non-si-puo-bloccare-il-paese-per-mesi-serve-subito-una-fase-due-307343/). Non ha avuto la risonanza delle dichiarazioni di Renzi, ma contiene un’idea diversa su come affrontare la lotta al coronavirus.

Vediamo che dice. Il modello Corea del Sud viene preso come riferimento per impostare una fase due in Italia. Fondato sui test, sull’isolamento dei soggetti positivi e sul loro tracciamento con la geolocalizzazione ha portato ad una minore pressione sugli ospedali, una limitata mortalità ed ha evitato il blocco di tutte le attività.

Nell’appello si riconosce che le attuali misure di contenimento sono importanti e vanno rispettate rigorosamente. Tuttavia non è pensabile tenere bloccata l’Italia per molto tempo perché le conseguenze economiche e sociali sarebbero devastanti.

Per rimettersi in moto evitando il riaccendersi della pandemia, ci vogliono scelte simili a quelle coreane. Occorrono, quindi, tamponi e test sierologici – che sono la risposta più rapida e sono fattibili in qualsiasi laboratorio, anche privato – generalizzati per quelle categorie professionali che operano a contatto con i pazienti ovvero che hanno più contatti con il pubblico. E per tutti coloro che manifestano sintomi e da questi allargamento ai parenti e persone incontrate negli ultimi giorni.

Decisive diventano le app di tracciamento dei soggetti positivi che permettano la geolocalizzazione derogando temporaneamente alle norme sulla privacy. Le  misure si completano sia imponendo l’obbligo delle mascherine per chi frequenta luoghi pubblici dove ci sia maggiore concentrazione di persone (uffici, mezzi di trasporto etc.) che prevedendo forme di isolamento e monitoraggio con adeguata quarantena dei positivi per evitare il contagio dei conviventi e dei loro contatti stretti. Sull’esempio di ciò che già si sta facendo in Toscana si  potrebbero utilizzare a questo scopo hotel e case vacanze. È il modello della quarantena centralizzata attuato in Cina.

Soltanto se i sintomi si aggravassero o se si passasse dalla positività al Covid 19 alla malattia vera e propria si renderebbe necessario il ricovero in ospedale.

Non si può continuare ad avere come orizzonte il blocco di qualunque attività a tempo indefinito. Spetta al governo immaginare e organizzare il passaggio ad una fase successiva all’emergenza e comunicarlo all’opinione pubblica.

Finora la risposta al coronavirus si è basata su due pilastri: blocco di ogni attività e ospedalizzazione. Tutti sanno che non è una strada praticabile a lungo. Per la parte sanitaria il coronavirus è stato affrontato in tre fasi: sottovalutazione iniziale (le dichiarazioni dei politici e di alcuni tecnici sono tutte registrate e lo confermano), drammatizzazione con la concentrazione sulle terapie intensive, rifiuto dei tamponi di massa (ci ricordiamo bene ad epidemia in corso la decisione di praticare i tamponi solo a chi fosse, di fatto, già arrivato al ricovero in ospedale).

Oggi sembra che si stia passando molto gradualmente ad una fase diversa basata sulla medicina del territorio per intercettare, curare e isolare i contagiati prima del loro aggravamento e dunque cercando di prevenire il ricovero nei reparti di terapia intensiva.

La risposta italiana al coronavirus ha fatto scattare un moto di orgoglio patriottico e di esaltazione dell’eccellenza della sanità pubblica, ma ha nascosto l’effettiva impreparazione di sistema che ha portato ad un numero di vittime nascoste e di contagiati che nessuno è in grado di calcolare. Dopo le timidezze iniziali adesso stanno venendo a galla storie di persone lasciate morire in casa con evidenti manifestazioni di Covid 19 senza che nemmeno fosse stato fatto il tampone a loro e ai loro familiari.

Occorre ricordare che esisteva un Piano nazionale di preparazione e risposta ad una pandemia influenzale redatto su indicazione dell’OMS ai tempi della Sars; piano che prevedeva di articolarsi in piani regionali e nel quale erano schematicamente previste le tipologie di intervento e di strumentazione che sembra siano state scoperte solo negli ultimi due mesi.

Per settimane siamo stati bombardati da una comunicazione centrata sul collasso degli ospedali e siamo stati invitati a decine di raccolte di fondi destinate per sostenere lo sforzo della sanità, ma non ci è stata proposta nemmeno dal mondo dell’informazione una lettura diversa di ciò che stava accadendo.

Quando si scriverà la storia della pandemia in Italia forse si ammetterà ciò che ogni giorno appare sempre più evidente: che la sanità era impreparata ad affrontarla e che i responsabili politici nazionali e regionali degli ultimi dieci anni (almeno) non hanno avuto consapevolezza di questo limite. Concentrati su piani di razionalizzazione che erano soprattutto tagli di spesa e di personale hanno perso di vista la funzione del Servizio sanitario nazionale.

Ormai il guaio è fatto e bisogna pensare a come uscirne. Per evitare danni peggiori fa bene il governo a prevedere il soccorso economico e sociale. Molti soldi pubblici saranno distribuiti. Questo è un passaggio essenziale ed è giusto compierlo, ma l’Italia non ha vinto nessuna lotteria e non riceveremo dall’Europa nessun regalo per coprire tutte le spese. Ciò che viene speso adesso prendendo soldi a debito, se l’Italia non si rimette in moto, diventerà un cappio al collo domani. Non c’è tempo. Occorre uscire dal blocco totale e proclamare che c’è un’altra via d’uscita alla crisi

Claudio Lombardi

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