1989: Berlino città aperta
Tra Roma e Berlino Est, sul filo di un collegamento telefonico pieno di scrosci e interruzioni, il direttore riesce finalmente a parlare con l’inviato. Chiede il direttore: «E i comunisti, cosa dicono i comunisti?». Esasperato, esausto, sgomento, l’inviato urla dentro la cornetta: «Direttore, i comunisti non ci sono più…». È un attimo: tra fischi, rimbombi e ronzii, la comunicazione si interrompe per sempre.
Poco dopo mezzanotte, tutto è compiuto. Torniamo in albergo per mangiare un boccone, ma la cucina è chiusa, i letti sono ancora disfatti, nella hall si aggirano pochi impiegati stralunati. Mimmo dice: «Andiamo alla porta di Brandeburgo». Così ci avviamo a piedi, io nel mio cappottone, lui con la telecamera in spalla, dentro un fiume di gente.
La vasta spianata davanti alla Porta è avvolta nel buio, i fari illuminano gli archi di pietra e più in alto la biga con i cavalli in corsa. La folla invade la piazza, in attesa, senza premere. Decine di giovani si prendono per mano, formano un ampio circolo, improvvisano un girotondo, cantano. La Porta non è ancora caduta, poche decine di metri avanti possiamo distinguere le sagome dei Vopos che ancora presidiano il muro. Profili scuri su sfondo rosso, in un gioco di luci e ombre. Mimmo chiede a una ragazza di tenere la candela accesa davanti alla telecamera. La fiamma vacilla al vento notturno, rischia di spegnersi, la ragazza la protegge con l’altra mano.
Si leva un urlo, quando i militari abbandonano il presidio, marciano impettiti e spariscono uno dopo l’altro dalla scena. Sul muro – in piedi sulla cornice di cemento – appaiono i più coraggiosi: si sono arrampicati e restano lì, ancora increduli. Un ragazzo con la barba fa sventolare la bandiera della città: il tricolore con l’orso berlinese. Una coppia, davanti alle campate della Porta, si abbraccia stretta e si bacia. Poi, in gruppo, i primi avventurosi si avviano a calpestare la terra di nessuno. A Ovest, a Ovest! La notte è appena cominciata.
Berlino città aperta. All’alba abbiamo passato il Muro portati dalla folla, a Potsdammer. Sembra una gita domenicale: oltre la barriera si apre un vasto spazio incolto, non sei ad Est e non sei ad Ovest. Ci spiega Ditmar, un giovane architetto che porta il figlio di tre anni sulle spalle, che questo è il triangolo di Lennè, quattro ettari della Berlino comunista che si spinge avventurosamente oltre il Muro. Una bizzarrìa territoriale plasmata negli anni dai complicati rapporti tra le due amministrazioni cittadine. In questa geografia ridisegnata, in questa allegra terra di nessuno, sciamano ora famiglie intere, gruppi di giovani che arrivano dal quartiere bohèmien di Kreuzberg, coetanei che li raggiungono da Ovest. Si riconoscono, questi ragazzi: il loro marchio è la gioventù, non l’etichetta politica. Così comunisti e capitalisti si abbracciano nella terra di mezzo: ci sarà tempo, dopo, per le divisioni, per i rancori, per le nostalgie. Perché gli Ossies li distingui bene dai loro coetanei della sponda capitalista: portano jeans stirati e giubbotti senza forma, sembrano venire da un villaggio tedesco più povero, ancora frastornati dal lungo viaggio. E molto presto saranno chiamati a pagare sulla loro pelle il prezzo di questa lunga diversità.
Ma lasciamo i ragazzi a godersi la festa. Su questo grande palcoscenico manca un personaggio che ieri riempiva l’intera scena. Il comunismo teutonico, l’inesorabile protagonista di quarant’anni, è scomparso, e con lui sono scomparsi i generali, i dignitari, i soldati, i soldatini, le spie del regime. Dove sta Egon Krenz, dove sta Willi Stoph, dove sta Erich Mielke “testa di cemento”, dove si è nascosto Gunther Shabowski, detto “shabe, la blatta”? L’intera verticale del potere – come si dice in Russia – si è dissolta in poche ore.
L’ultima immagine del potere è come un lampo nella pioggia. In un giorno che non ricordo il nuovo leader appena disarcionato, Egon Krenz detto “il bevitore”, convoca quello che resta del partito in una manifestazione di orgoglio nazionale. Poche centinaia di persone che si stringono le une alle altre, qualche bandiera della Sed, qualche giovane testardo con la camicia azzurra. Sarà il vento e la pioggia battente, sarà il buio che incombe su questa strada a malapena illuminata, ma davvero sembrano tutti raccolti su una zattera in balìa delle onde.
È tardi, era già troppo tardi questa estate, quando l’Ungheria ha aperto le frontiere e migliaia di tedeschi sono andati in vacanza a Budapest e da lì, attraverso i campi, sono entrati nel nuovo mondo. Il regime ha aspettato, ha rimandato, non sapeva che fare, se non organizzare inutili manifestazioni patriottiche e reprimere ogni dissenso. Si avvera così la fosca profezia di Gorbaciov: «Chi arriva troppo tardi sarà punito dalla storia».
Chi riflette, chi ha il dovere di riflettere, è in questo momento attanagliato da dubbi e da sentimenti contrastanti, sollievo e delusione, allegria e vertigine. Ecco Barbel Bohley, artista, pittrice, femminista, per anni bollata dal regime come madre della clandestinità, indomita fondatrice del movimento dissidente Neues Forum: «Se mi chiede come mi sento oggi, ecco: sono felice e triste allo stesso tempo. Vada a vedere la nostra gente che passa dall’altra parte. I padri e le madri si sentono traditi, i figli non chiedono che cancellare anni e anni di retorica e conformismo. Non chiedono altro che essere come i loro coetanei dall’altra parte del Muro. Avere le stesse opportunità, le stesse occasioni e le stesse delusioni. Perché ci saranno amare delusioni, lo sappiamo bene. Ma tutto è meglio di questo stagno chiuso, di questa palude circondata da un muro con le casematte e i soldati –ragazzi come loro – armati e pronti a sparare». Ost-nostalgie, nostalgia dell’est. Il Muro non è ancora crollato, il cadavere – come dire – è ancora caldo, e già si portano fiori sulla tomba. Come il mazzetto striminzito, fuori stagione, che Kristin ha trovato non so dove e che posa sulla scrivania dove è seduta una donna energica, severa, il viso aperto, una gran massa di capelli corvini. Christa Wolf, la Cassandra berlinese, è venuta oggi all’Università per ricevere l’abbraccio della sua grande famiglia: gli anticonformisti, gli irriducibili, i sognatori di un socialismo mai sbocciato.
La gente si accalca dentro la stanza, preme alla porta, corre lungo i corridoi dell’ateneo. Tutti vorrebbero abbracciarla, in qualche modo accarezzarla. Ma è lei che si inginocchia davanti alla sua gente. «Vi prego, restate, aiutate. La visione di un socialismo democratico non è un sogno, se restando qui impedirete che essa muoia sul nascere». Più un epitaffio che un’esortazione. L’affettuoso saluto della gente a questa testarda sognatrice è quasi un addio. Muore qui, in quest’ aula affollata e commossa, il sogno generoso di Noies Forum: un Paese libero e diverso, un socialismo ideale costruito sulle rovine della guerra fredda.
Appena fuori da queste stanze severe l’intera città esplode e ronza come un alveare impazzito. Berlino Est si svuota e si accartoccia su sé stessa come un frutto secco. Migliaia di persone sono in marcia. A piedi, in auto, in bicicletta, un popolo intero si accalca intorno ai varchi nel Muro, sfiora il cemento, passa da un mondo all’altro in pochi affannosi minuti. Ancora Barbel Bohley: «Le dico, signor giornalista, noi qui abbiamo fallito. E hanno ragione loro, che si prendono i cento marchi regalati dal governo occidentale e che passeggiano sulla Ku’damm incantati come Alice nel paese delle meraviglie».
Flavio Fusi tratto da www.succedeoggi.it
3. Fine
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