8 marzo, 25 aprile, 27 gennaio: i faziosi all’assalto dei simboli

Con Sara, la ragazza fiorentina cacciata da una manifestazione indetta per la Giornata della donna perché voleva denunciare anche gli stupri di Hamas, ci siamo giocati anche l’8 marzo.

25 aprile, 27 gennaio, 8 marzo. Una dopo l’altra, rotolano come birilli verso il buco nero dell’insignificanza le celebrazioni di precetto del calendario laico, repubblicano e progressista. Simili ricorrenze, è noto, sono fisiologicamente soggette alle ingiurie del tempo: l’abitudinarietà, l’inesorabile distanza dagli eventi di cui si fa ricordo, la dinamica dello “stanco rito” sono sempre in agguato, ogni anno di più.

Ma quel che sta accadendo, nella nostra vita pubblica, intorno a queste date e a ciò che rappresentano è qualcosa di diverso e di infinitamente più grave. Cosa accade, infatti, mentre la Storia si incarica tragicamente di far rivivere e riattualizzare queste memorie, di tornare a marchiare i nostri giorni di quelle piaghe che credevamo, anche per effetto dei nostri annuali esorcismi, di aver relegato nel passato, nel velleitario archivio delle lezioni storiche da apprendere? Ecco, mentre avviene tutto ciò, gli abituali officianti di questi riti laici, i professionisti del calendario liturgico democratico si rivelano in realtà null’altro che una setta fanatica, ideologizzata e ipocrita, custode non già dei valori celebrati in quelle ricorrenze, ma solo di una versione partigiana degli stessi.

Si veda il caso del 25 aprile. L’antifascismo, confessiamolo, non se la passa granché bene qui da noi. Da tempo pare ridotto a patetica coperta di Linus di un complesso politico-mediatico- intellettuale di sinistra che, da almeno trent’anni a questa parte, grida alla deriva neofascista ogniqualvolta perde democratiche elezioni, il che è avvenuto non di rado, e che ciononostante da altrettanto tempo considera un’efficace strategia elettorale il tentativo di far rivivere al paese una sempiterna primavera del ’45. In questo contesto, lo spazio di lotta delle sentinelle democratiche si è malinconicamente ridotto al giochino di sorvegliare se, come e dove la nomenklatura della destra al governo celebri il 25 aprile, a far loro la posta come una qualunque troupe de Le Iene. Nella speranza, ahimè spesso non infondata, che qualcuno degli eterni underdogs di Colle Oppio elargisca la fregnaccia nostalgica di turno con la quale si può rimediare materia per qualche settimana di talk show all’insegna dell’allarme e della mobilitazione antifascista.

Poi, in questo quadro decisamente non esaltante, irrompe la proterva e sanguinaria follia di Putin. Accade che “Bella ciao”, da noi ormai tormentone identitario della Resistenza a tutto, dal fascismo a MCDonald’s al premierato, torni drammaticamente ad essere per gli ucraini vita vissuta. La mattina del 24 febbraio 2022 si sono svegliati ed hanno davvero trovato l’invasore, a dispetto delle rassicurazioni del nostro oracolo della geopolitica for dummies, alias Lucio Caracciolo, che ancora poche ore prima dell’invasione esortava a non prestare ascolto agli isterici, e ovviamente interessati, allarmi americani. Dopo ottant’anni torna la guerra in Europa per iniziativa di un fascista fatto e finito, cresciuto alla scuola sovietica del KGB, il quale, al grido “siete roba mia”, invade e devasta uno stato sovrano, fa strame del diritto internazionale, uccide, stupra, rapisce bambini.

Le tragedie di alcuni, a volte, sono occasione di risveglio etico per altri. La sciagurata avventura del criminale di guerra del Cremlino poteva essere la doverosa occasione di sottrarre il 25 aprile al modestissimo cabotaggio della polemica politica per affermare che, sì, gli slogan ripetuti per 80 anni non erano vuote litanie: la libertà non è per sempre, ecco lì a dimostrarlo una nuova Resistenza, nuove stragi di civili, nuove corse nei rifugi, un’altra generazione di giovani chiamati ad interrompere sogni e progetti per andare a combattere sul suolo nazionale per liberarlo dall’invasore. Macché. Nulla di tutto questo. Gli autoproclamatisi custodi dell’eredità resistenziale, i partigiani dell’ANPI, diventano al contrario la punta di lancia degli utili idioti filoputiniani, il megafono del peggior negazionismo sulle stragi russe, l’epitome del pacifintismo più spinto che spaccia per pace la resa dell’aggredito all’aggressore. Arrivò il fascista ed essi, quelli che citano compulsivamente Eco e il “fascismo eterno”, non lo riconobbero. Decenni di pomposa retorica resistenziale per finire, alla prima prova di coerenza, a dare ragione a Mino Maccari:”il fascismo si divide in due parti: il fascismo propriamente detto e l’antifascismo”.  Cose che capitano quando non si è indistintamente avversi ad ogni forma di totalitarismo, quando la mitologica “lotta contro tutti i fascismi” non include nel proprio target la variante del rossobrunismo.

Non è andata meglio con il 27 gennaio. Quest’anno, a meno di quattro mesi dal pogrom jihadista che in ottant’anni ha maggiormente rievocato i fantasmi della “soluzione finale”, si trattava di chiamare a raccolta gli anticorpi presuntivamente disseminati anche qui in decenni di compunta liturgia repubblicana, di dimostrare che la solenne contrizione degli stentorei “mai più’” era pronta a tradursi in vigilanza attiva. Il Giorno della Memoria, invece, si è svolto circondato dal prorompere di un antisemitismo dilagante, fiume carsico infine manifestatosi con il pretesto delle critiche alla risposta israeliana al pogrom. Antisemitismo rivendicato, esibito, rabbiosamente urlato. E non era che un inizio.

Ma ancora una volta la sinistra, la parte politica, intellettuale e mediatica che da sempre (e giustamente) ha tenuto più alta la guardia nei confronti della più infamante eredità del fascismo, si è spaccata tra i pochi che hanno individuato subito il lato giusto della Storia, i più rumorosi ed estremisti che si sono resi protagonisti del rigurgito antisemita ed infine un corpaccione afasico, aggrappato a logori distinguo tra antisionismo ed antisemitismo, irretito dagli esercizi di “maanchismo” ampiamente messi a punto con riferimento all’Ucraina.

In questa temperie, le mimose dell’8 marzo si stagliavano come una sorta di ultima spiaggia. Ci si illudeva che quello slogan, “Non una di meno”, mettesse al riparo da strabismi ed omissioni, includesse senza confini né dimenticanze tutte le violenze e discriminazioni sulle donne, tutti i casi, ad esempio, di odioso utilizzo dello stupro come arma da guerra. Raramente una speranza è stata peggio riposta. Come ha scritto su La Stampa, in un editoriale da incorniciare, Assia Neumann Dayan, “Voglio rassicurare tutti: il femminismo è morto. Il funerale è stato celebrato in data 8 marzo in tutte le piazze italiane e del mondo occidentale, anche perché se scendi in piazza in Iran ti impiccano”. Segue l’impressionante catalogo delle sottrazioni operate a quel “tutte”, l’inesorabile sequenza di segni “meno”, tutti in chiave antisemita e/o antioccidentale, che alla fine, come ha icasticamente scritto su www.inoltreblog.com Alessandra Libutti, fanno sembrare quel concetto così inclusivo “una specie di club dove ne fai parte oppure no”. Il club dal quale, in una piazza di Firenze, Sara è stata brutalmente allontanata, da una buttafuori della polizia del pensiero, perché portava un cartello con su scritto “Non una parola sugli stupri di Hamas. Le donne israeliane se la sono cercata?”.

Così scivolano via i fogli del nostro calendario. Le ricorrenze si può anche finire per ignorarle, per onorarle solo distrattamente. Ma tradirle, mentre la Realtà ne reclama l’attualità, è un gioco pericoloso. Scriveva Elias Canetti che “nel calendario, con i suoi immutabili anniversari, si riconosce una garanzia per ciò che verrà. Quando tutto va in pezzi, il calendario con i suoi giorni particolari resta l’unica e ultima sicurezza”. La stiamo distruggendo.

Giulio Massa

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