A che servono questi partiti? (di Salvatore Aprea)

A metà febbraio il presidente della Corte dei Conti, Luigi Giampaolino, ha inaugurato l’anno giudiziario della magistratura contabile con una relazione in cui uno dei punti più forti è stato: “Illegalità, corruzione e malaffare sono fenomeni ancora notevolmente presenti nel Paese le cui dimensioni sono di gran lunga superiori a quelle che vengono, spesso faticosamente, alla luce”.


Dalla corruzione dell’attività sanitaria allo smaltimento dei rifiuti, dall’utilizzo “gravemente colposo” di prodotti finanziari alla costituzione e gestione di società a partecipazione pubblica e alla stipula di contratti pubblici di lavori, servizi e forniture: ce n’è per tutti i gusti.
Il Dipartimento della Funzione Pubblica ha stimato la corruzione in Italia in circa 60 miliardi di euro l’anno eppure nel 2011 sono state inflitte condanne solo per 75 milioni di euro. Se si considera che per la Commissione europea la corruzione costa annualmente all’economia dell’Unione 120 miliardi di euro – ovvero l’1% del Pil della Ue e poco meno del bilancio annuale dell’Unione europea – il giro economico della corruzione in Italia incide per il 50% sull’intera corruzione europea. Il dato risulta talmente stratosferico da apparire quasi poco credibile. Tuttavia la Corte dei Conti ricorda che “il nostro Paese nella classifica degli Stati percepiti più corrotti nel mondo stilata da Transparency International per il 2011 assume il non commendevole posto di 69 su 182 paesi presi in esame e nella Ue è posizionata avanti alla Grecia, Romania e Bulgaria”.
L’ennesimo allarme della Corte dei Conti ha avuto ampio spazio dai mezzi di comunicazione, ma è rapidamente scivolato via come tutte le notizie che non sono una sorpresa. In fondo a molti è sembrato nient’altro che il consueto allarme che ci accompagna tutti gli anni, a riprova del fatto che il fenomeno non solo non è stato debellato, ma neanche circoscritto. D’altronde la Prima Repubblica (in questo caso, mai maiuscole furono più indegne…) cadde vent’anni fa in maniera miserevole per le stesse cause o meglio, si creò l’illusione della caduta poiché a quattro lustri di distanza siamo dinnanzi al medesimo scenario. Chi avrebbe dovuto pilotare il Paese fuori dalle sabbie mobili, ossia le forze politiche nuove, nuovissime o “da usato sicuro” emerse dalle macerie morali ed economiche dell’epoca, è riuscito nell’improba impresa di far quasi rimpiangere chi l’ha preceduto.
Capitani di ventura

Le responsabilità delle forze politiche del nostro paese, ovviamente, non si riducono alla sola corruzione: capacità di programmazione assente, burocrazia ipertrofica, classe dirigente selezionata in base all’appartenenza e non alle competenze, incapacità di porre mano alla crisi della giustizia e rispetto della democrazia solo di facciata sono alcuni dei grani di un rosario che è inutile far scorrere per intero essendo ben noto a chiunque. In particolare, che i partiti italiani siano storicamente allergici alla democrazia interna, a parte le apparenze, è cosa nota a tutti. È storia vecchia, ad esempio, che nei partiti circolino da sempre falsi tesserati e spacciatori di pacchi di tessere per pilotare i Congressi. Sicché appare evidente che strutture dalla democrazia alquanto labile al loro interno facciano eufemisticamente fatica ad esserlo al loro esterno. D’altronde una delle funzioni principali delle formazioni politiche nostrane storicamente è stata perpetuare una delle attività primarie del regime fascista ovvero l’occupazione capillare di tutte le posizioni di potere per controllare il paese, al netto di una differenza: l’applicazione sistematica della logica spartitoria del manuale Cencelli, di cui il Fascismo ovviamente non aveva bisogno.
Una commedia degli anni ’40 interpretata dai fratelli De Filippo – il cui titolo, “A che servono questi quattrini?”, mi ha ispirato il titolo di questo articolo – mi sembra una perfetta metafora del comportamento dei partiti. Mentre nella commedia traspare il messaggio che per risultare ricchi non è necessario detenere il denaro, ma piuttosto simulare di averne, nei partiti non è necessario esercitare effettivamente la democrazia, ma solo simulare di farlo.


È allora il caso di porsi qualche domanda, a cominciare dalla seguente: è possibile riformare gli attuali partiti senza che il tutto si riduca ad un ipocrita maquillage? Ovvero è possibile evitare che tutto cambi in modo che tutto resti uguale, come spesso è gattopardescamente avvenuto nella storia di questo paese? Il lettore, a questo punto, mi perdonerà se manifesto esplicitamente tutto il mio scetticismo in proposito e, quindi, sorge consequenziale un’altra domanda che, me ne rendo conto, suona provocatoria, ma che ritengo ineludibile: ai fini della realizzazione di una democrazia compiuta, se i partiti politici da decenni accumulano un fallimento dietro l’altro sono realmente così indispensabili? In termini più espliciti, i partiti nati per tutelare la democrazia non si sono trasformati in uno dei principali ostacoli alla sua effettiva attuazione pur di garantirsi l’autoconservazione?
Lungi da me l’idea di proporre sommariamente una forma di democrazia diretta dei cittadini, poiché la ritengo difficilmente realizzabile, tuttavia l’ampliamento del controllo degli eletti da parte degli elettori e il superamento della delega in bianco agli eletti “qualunque cosa accada” stanno diventando necessità sempre più pressanti. La libertà di mandato, garantita giustamente dalla Costituzione per tutelare i rappresentanti dei cittadini dopo vent’anni di dittatura, è utilizzata sempre più strumentalmente per assicurare agli eletti l’irresponsabilità ed è diventata la base del trasformismo. D’altro canto lo stravolgimento della funzione dei partiti – figli o nipoti delle visioni ideologiche del ‘900 – negli ultimi vent’anni è sotto gli occhi di tutti. Nella Prima Repubblica, in caso di crisi interna un partito rimaneva immutato come un monolite e il segretario e la nomenklatura a lui legata cadevano in disgrazia, mentre oggi in caso di crisi spesso sono il leader e i suoi fedelissimi a rimanere in sella ed invece è il partito a mutare il nome e il simbolo. Non più legati ad alcuna ideologia, al di là di quella propagandata alle masse, né ad alcun progetto politico a lunga scadenza, il leader e la nomenklatura sembrano sempre più somigliare alle truppe mercenarie del XV secolo al soldo di questo o quel principe, a condottieri come Giovanni dalle Bande Nere o Bartolomeo Colleoni seguiti dalle proprie compagnie di ventura.
Certo, la ricerca dell’immunità genetica dalla disonestà e dalle prevaricazioni del potere non sono soltanto un problema italiano. Il caso del presidente tedesco Wulff, dimessosi perché sospettato di avere effettuato un’operazione immobiliare “poco trasparente”, e in precedenza il caso di Chirac, di ministri inglesi e di schiere di politici e amministratori pubblici americani o del Sol Levante sono ben noti. La differenza fondamentale, però, scatta nel comportamento di fronte al sospetto, che per un servitore dello Stato è incompatibile con l’esercizio delle sue funzioni. Nelle società civili, infatti, i rappresentanti dello Stato accettano di pagare il prezzo dello scandalo e si dimettono. Nella società civilmente sottosviluppate, invece gridano alla “persecuzione politica” e sguinzagliano difensori e giullari, utilizzando il partito come un esercito a protezione del proprio potere.

Un laboratorio in miniatura

Non ho la pretesa di sottoporre soluzioni preconfezionate, il mio scopo è diverso: stimolare un pubblico dibattito che avvii una sorta di “laboratorio politico” (non partitico!) in miniatura per contribuire a esplorare nuove strade. In “Democrazia: cosa può fare uno scrittore?” scrive Antonio Pascale “…..si potrebbe sperare nell’affermazione di una sorta di “nuovo intellettuale”, chiamato intellettuale di servizio, capace di far propria, o di riflettere sulla frase di Goffredo Parise: <>. Se questa frase contiene una qualche verità, e la contiene, allora è necessario impegnarsi affinché il discorso pubblico vada di pari passo con la pedagogia. Significa che in un mondo di incubi bisogna portare la necessaria dose di analisi”. Il mio principale auspicio, in particolare, è che non si resti avviluppati nel pernicioso stato d’animo del “tanto nulla può essere cambiato”. Se Davide avesse avuto questo convincimento, dubito fortemente che si sarebbe mai cimentato con Golia….
È sempre arduo percorrere strade inesplorate, ma è inevitabile se miriamo a vivere in una democrazia compiuta e non in un suo simulacro. Mi sembrano quasi un’emblematica postilla i versi di un poesia di Robert Frost, “La via che non presi”:

Due strade divergevano nel giallo bosco.

Mi dispiacque non poterle prendere entrambe,

ero un solo viaggiatore.

A lungo stetti a guardarne una

fin dove giungeva lo sguardo,

là, dove piegava nel sottobosco.

Poi, seguii l’altra.

Tenni la prima ancora per un giorno,

sapendo come ogni strada conduca a un’altra strada.

Dubito che mai tornerò indietro.

Forse lo dirò con un sospiro, chissà dove,

fra anni ed anni, chissà quando:

“Due strade divergevano nel bosco ed io…

io scelsi la meno frequentata.”

E proprio in questo e’ la differenza.

Salvatore Aprea da www.lib21.org

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