Addio ad uno smart working mai nato

Pubblichiamo parte di un intervento sullo smart working nella P. A. tratto da www.phastidio.net

Lo smart working nella Pubblica Amministrazione torna di moda, ma non per porsi e risolvere il problema di come applicarlo in modo corretto e produttivo, bensì per chiudere l’esperienza.

Il Ministro della Funzione Pubblica da qualche giorno annuncia che bisogna tornare al lavoro “ordinario” in presenza. Con tanti saluti al famoso ormai POLA (il Piano Organizzativo Lavoro Agile), inventato dal precedente inquilino di Palazzo Vidoni e già cancellato dal PIAO (Piano Integrato di Attività e Organizzazione).

A ben vedere, se l’intento del Ministro sarà rispettato, si porrà fine nella PA ad uno smart working che in realtà non è mai realmente iniziato, se non in rarissimi casi.

Come ha evidenziato su Twitter il Prof. Michele Tiraboschi, nella gran parte dei casi il lavoro agile nella PA si è raggrinzito in un mero lavoro da casa.

Cosa è mancato? Tutto quanto serviva da condizione preliminare: la riorganizzazione del lavoro, anche (ma non solo) in termini di digitalizzazione.

Il lavoro agile, infatti, può funzionare realmente solo se venga ripensato il modo con cui si lavora, superando definitivamente l’idea che la prestazione lavorativa sia strettamente connessa all’inchiodamento del lavoratore ad una sedia o a una postazione di lavoro, alla quale debba quotidianamente “andare” muovendosi da casa, per poi “tornare” a casa. L’idea vetusta che il lavoro è tale se “si va” al lavoro e da esso si torna, dopo lungo peregrinare.

Si tratta di quella stessa idea secondo la quale il lavoro altro non è se non l’apostrofo rosa tra una timbratura all’entrata ed un’altra all’uscita, in mezzo alle quali nessuno sa esattamente cosa facciano i dipendenti (e in alcuni casi, nemmeno se effettivamente siano presenti quei dipendenti che hanno timbrato o fatto timbrare per proprio conto da altri), anche se un’assenza per andare a consumare un panino e un caffè sembra possa essere la leva che farà salire il Pil di 2 punti!

Il lavoro agile dovrebbe essere il cambio di paradigma: lo strumento decisivo per capire che il lavoro non coincide con la mera messa a disposizione del proprio tempo e in dato luogo da parte del lavoratore al datore, accompagnata dall’adempimento alle direttive di quest’ultimo. Soprattutto in un sistema gigantesco di produzione di servizi a valore aggiunto, quale dovrebbe essere ed essere anche percepito quello della PA, vi dovrebbe essere estrema attenzione al valore e, quindi, ai compiti da realizzare ed i risultati a questi collegati.

Pochissimi esempi: ampliare i controlli, ad esempio, dell’ispettorato del lavoro, significa porsi obiettivi connessi alla percentuale di aumento del numero dei controlli rispetto ad un plafond determinato, alla percentuale dei contenziosi derivanti, alla percentuale dei contenziosi comunque vinti, al numero di verbali.

Il che implica avere conoscenza dei tempi richiesti dalle uscite, dall’accesso ai locali, dalla redazione dei verbali, dalle notifiche, dall’adozione dei provvedimenti, dalla gestione dei contenziosi, per realizzare così griglie di attività e compiti, ripartibili tra i vari dipendenti, in modo da creare griglie chiare di attività da svolgere e risultati concreti da ottenere. Passando così dall’espletamento della mansione, alla creazione del valore connesso alla mansione svolta.

Il che consentirebbe di svolgere l’attività lavorativa non necessariamente in un solo luogo, ma in una molteplicità di sedi e anche senza l’incatenamento ad un segmento orario nel quale svolgere le varie attività.

In questo consiste lo smart working: cioè, nella possibilità di connettere la propria prestazione lavorativa alla realizzazione di compiti operativi chiari, connessi a risultati individuali e di gruppo misurabili, indipendentemente dall’orario e dalla sede.

(Continua a leggere su https://phastidio.net/2021/09/02/addio-a-uno-smart-working-mai-nato/)

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