Alle radici della crisi dell’industria
L’economia è ripartita. Se si riesce ad evitare un’altra ondata di contagi, ricoveri e morti possiamo sperare di arrivare alla fine dell’anno con un Pil che si avvicina al recupero delle perdite dell’anno scorso. Ovviamente se continuano ad esserci milioni di non vaccinati e i comportamenti pro contagio che abbiamo visto nelle ultime settimane ci sono buone possibilità che tutto peggiori. C’è anche qualcuno che spera di lucrare sulla crisi perpetua, ma per tutti gli altri italiani sarebbe un disastro.
I problemi però vanno anche oltre i guai della pandemia. Finora le crisi industriali sono state stoppate sia con il blocco dei licenziamenti che con la cassa integrazione, ma, presto bisognerà affrontarle e protestare non servirà a nulla. Un’interessante intervista di Andrea Garnero, economista dell’Ocse, rilasciata ad Huffington post offre vari spunti di riflessione sui quali è bene soffermarsi.
Così si esprime sull’uso degli ammortizzatori sociali: “Il problema del welfare italiano è che per decenni, dal Dopoguerra in poi, si è fondato quasi esclusivamente sulla cassa integrazione e non sui sussidi di disoccupazione e sulla ricollocazione. La cassa integrazione è uno strumento prezioso ed efficace in tempi di crisi temporanea, ma non è una soluzione in situazioni in cui ci sono problemi strutturali. Per anni non avevamo un’alternativa: ora abbiamo un sussidio di disoccupazione, ma ci mancano le politiche attive e quelle di formazione”.
Nelle crisi industriali “non basta la cassa integrazione: i lavoratori vanno presi in carico, capire quali sono le competenze che desiderano acquisire o che sono loro utili, dare loro un’opportunità di formazione (….). La cassa è uno strumento per mantenere il legame tra lavoratore e impresa in caso di crisi temporanea, ma se un’impresa chiude o va verso una forte ristrutturazione che legame si mantiene?”
Quindi, “una cassa integrazione che dura per molto tempo, addirittura per anni, non è una soluzione per i lavoratori. I massimali sono bassi (800 euro, alla meglio 1200) e ai lavoratori non è offerto nulla per provare a ricollocarsi o perlomeno ripensare il proprio lavoro”.
Sulla questione dei licenziamenti Garnero ritiene che molti di quelli che vengono effettuati in queste settimane “sono legati a situazioni che non hanno nulla a che fare né con il blocco né con il Covid perché derivano da problemi ben più strutturali. (…..) Infatti “dobbiamo ricordare che pre Covid i licenziamenti erano 40mila al mese in media, non cento o duecento. Il rischio, ora, è di focalizzarsi su alcuni casi emblematici e pensare che il problema siano solo alcune multinazionali e non la mancanza di alternative valide”.
Osserva ancora Garnero che “In Italia ci sono acquisizioni, nazionali o straniere, praticamente ogni settimana, ma il problema è l’equilibrio delicato tra il preservare l’esistente e la transizione verso qualcosa di nuovo che ancora conosciamo poco. La produzione di acciaio, di elettrodomestici e di auto ha subito forti cambiamenti legati alla globalizzazione, alla domanda dei consumatori e alle regole. In questi settori ci sono costi fissi di ricerca, sviluppo e produzione importanti da ammortizzare e il mercato nazionale non basta alle aziende. Il problema è che alla fase di distruzione non segue quella di creazione” ovvero mancano le alternative.
Favorire la creazione di nuove aziende sarebbe compito della politica industriale. “Orientare e accompagnare il cambiamento, non preservare tutto l’esistente a prescindere”. Ci si è provato, ricorda Garnero, “abbiamo messo in campo strategie per attrarre investimenti esteri, dagli incentivi alle semplificazioni”, ma ci vuole tempo e continuità. In Italia, però, “quello che manca sono i servizi ad alto valore aggiunto. Abbiamo scelto un modello di sviluppo basato su servizi a basso valore aggiunto, a partire dal “turismo petrolio dell’Italia” ma in troppi casi pensando che significasse solo aprire un bed&breakfast alla buona”. Quando il lavoro si concentra in settori a basso valore aggiunto lo si vede dalla crescita dell’occupazione a parità di Pil. Per esemplificare “quando si fanno le lotte per tenere aperti i call center bisogna ricordarsi che certamente dietro ci sono tante famiglie, ma anche che non è su settori come quello dei call center che si farà la ricchezza dell’Italia e dei suoi lavoratori”.
Con lavori di bassa qualità il rischio di delocalizzazione è certo perché “molti dei servizi a basso valore aggiunto (…) possono essere spostati all’estero, dove il costo del lavoro è molto più basso, o magari rimpiazzati da chat e robot”. La difesa dei posti di lavoro esistenti, quindi, non serve come strategia di crescita industriale.
D’altra parte l’antefatto risale agli anni ’80 e ’90: decadenza dei grandi gruppi industriali e “poche aziende leader in grado di trascinare un’intera filiera di piccole e medie imprese”. Inoltre “negli stessi anni abbiamo mancato la rivoluzione informatica e la transizione all’economia dei servizi (…) non abbiamo puntato sulla ricerca, pochissima formazione”. In pratica si è perso il treno dell’innovazione. Ci siamo, quindi , ritrovati a competere sulla frontiera dei costi mettendo, tra l’altro, sotto pressione i salari.
Anche sul nostro posizionamento nelle catene del valore Garnero ha qualcosa da dire. “Prendiamo pezzi e materie prime, ma poi il prodotto finale si fa in Germania o altrove. Se avessimo in Italia più imprese finali, cioè nella parte alta della catena del valore, saremmo in grado di estrarre una fetta maggiore del valore aggiunto e guidare il processo”.
Ora arriveranno tanti soldi legati al PNRR, ma la “transizione ecologica e digitale non sarà senza costi e comunque può essere fatta in tanti modi. Un modo è limitarsi a cambiare i consumi, comprando dall’estero pannelli solari, pc, fibra ottica e poi montare tutto in Italia. Un altro modo è sviluppare una capacità industriale nostra, capace di aggiornarsi costantemente”.
Claudio Lombardi
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