Andare via o rimanere? (di Mila Spicola)
E’ stato presentato nei giorni scorsi il rapporto elaborato dalla SVIMEZ, l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, sullo stato dell’economia nel sud del Paese.
Abbiamo voluto capirci di più e quindi siamo andati a sfogliare il corposo dossier che fotografa l’inesorabile decadenza del mezzogiorno.
Basterebbe un solo dato per chiarire, se ve ne fosse ancora bisogno, di quanto il sud si allontani sempre più dal nord del Paese: 281 mila unità lavorative perse nel periodo 2008-2010. Un dato drammatico a cui si aggiunge un ulteriore tassello di riflessione: nel periodo 2000-2009 hanno lasciato le Regioni meridionali ben 600 mila uomini e donne in cerca di un futuro migliore verso le Regioni del settentrione o all’estero.
Ma quello che davvero lascia interdetti è il dato fornito relativamente alle previsioni per i prossimi quarant’anni: un giovane su quattro sarà costretto a lasciare il sud della penisola. Come commentare questi dati? cosa aggiungere al senso di profonda frustrazione che chiunque, vivendo in questo sud, prova alla lettura di queste cifre? D’altronde lo stato delle cose è più che evidente a chi qui vive e prova a realizzare il proprio percorso di vita. Quanti nostri amici hanno scelto, con dolore, di provare a costruire il proprio futuro altrove? Io per prima sto per andare via di nuovo…e me ne dolgo. Mi verrebbe da dire: m’indigno.
Allora cosa fare? Tante le domande e la solita retorica: una classe dirigente inadeguata ed insufficiente è probabilmente la prima responsabile di questo sfascio.
Sicuramente è così; ma solo questo? certo no. Vien da chiedersi a questo punto la gente dov’è? La risposta anche in questo caso non è scontata.
La gente probabilmente è impegnata nella dura battaglia quotidiana per la sopravvivenza. Una sopravvivenza che oramai è assoggettata ad un qualunquismo che impone atteggiamenti e comportamenti che sono comuni in questi luoghi ma che non hanno nulla, davvero nulla a che fare con quel necessario e doveroso rispetto delle regole. Ci si arrabatta per come meglio di può, ricorrendo alle amicizie, alle raccomandazioni, alla politica, ma non nel senso sano, bensì insano, quella che “ci sistema il figlio” o ci “aiuta nelle pratiche”.
Io non ci sto e mi incazzo: credo che questo sia il vero punto della questione. Qui si lavora, quando si lavora, preferibilmente in nero; qui si propinano solo ed esclusivamente contratti parasubordinati; qui la gente vive di espedienti. A tutto questo si aggiunge un ulteriore elemento drammatico. Oggi chi paga più degli altri è la parte più avanzata della società culturale meridionale. E’ più facile “collocarsi” con una licenza media piuttosto che con un diploma o una laurea, annullando decenni di sviluppo e organizzazione sociale. Studiare in Sicilia non serve, secondo i dati Svimez. Studi solo per emigrare.
Un vero e proprio paradosso, un vero e proprio spreco di cervelli. Il 54% dei giovani che partono è laureato o diplomato e se ne va a far fruttare le sue competenze non qua, dove verrebbe umiliato e compresso, ma altrove.
Quei giovani che hanno acquisito, grazie al processo formativo, le migliori competenze per sviluppare e concretizzare il proprio futuro, e quindi quello dei luoghi dove vivono, oggi, per il perverso meccanismo che vede proprio nel mezzogiorno la presenza di una classe dirigente abbondantemente al di sopra dei 50anni, vedono letteralmente bloccato il proprio ingresso nella gestione del presente e nella costruzione del futuro.
Voglio raccontarvi la mia esperienza solo perchè è indicativa ed è utile alla riflessione. Ricordo che non sono la sola, con me ci sono Antonio, Giacomo, Peppe, …e tanti tanti altri che hanno avuto esperienze fotocopia della mia. C’è la mamma di una ragazza ingegnere che adesso vive negli States e che è stata messa dai suoi letteralmente piangente in un aereo quando andò via la prima volta. Oggi è una ricercatrice affermata che produce sviluppo non per la sua terra ma per gli Stati Uniti.
Io poi…ero andata via nel ’92, sono ritornata nel 2007 e mi sa che rivado via, dopo 4 anni di lotte inenarrabili e sempre con gli occhi del sospetto per giustificare l’attivismo: perchè al sud se ti agiti troppo il retropensiero è sempre in agguato, meglio star fermi. Ma c’è chi si muove e vuole muoversi e c’è anche chi si muove per andarsene, una, due , più volte.
Ho appena vinto un concorso per l’ammissione a una scuola di dottorato internazionale con un esame difficilissimo, in due lingue, studiando come un’ ossessa per prepararmi nonostante le discipline siano il mio cavallo di battaglia: i sistemi d’istruzione. Abituata al peggio ero convinta di non vincerlo, lo davo per scontato. Io sconosciuta e di una città lontana. E per la seconda volta nella vita il partire mi ha premiata a fronte di un rimanere che non premia bensì soffoca.
Lo dico solo per raccontarvi che sono la stessa persona che nel ‘92 non li superava ancora i dottorati salvo poi superarli altrove e , recidiva, due anni fa non superò nuovamente, un concorso di ammissione a un dottorato ben più modesto presso l’ateneo palermitano per “vizio di forma”. Il concorso era solo per titoli, e io avevo una carrettata di titoli dovuti a 15 anni di ricerca universitaria da precaria della ricerca fuori da Palermo e fuori dall’Italia.
Partecipai quasi per gioco, pensai che non c’era manco “prio”, così si dice da noi…e invece. Al peggio non c’è fine e il “solo per titoli” che avevo valutato come una fortuna si trasformò in una beffa da non credere, se non l’avessi vissuta. Non seppero trovare di meglio che il vizio di forma nel progetto di ricerca per escludere “questa qua che nessuno la conosce e che nemmeno si è permessa di fare una telefonata“. Come se non bastasse la produzione scientifica certificata, due lauree, un altro dottorato, una specializzazione, due master e le pubblicazioni a garantire un curriculum: mancava l’essenziale e il vizio di forma fu la mancata telefonata di rito. Io riti non ne seguo se non quelli della legalità e della chiarezza e li mandai a quel paese. Pensai tutta la miseria del mondo e la penso ancora quando mi capita di passare da via Ernesto Basile, non me ne abbiano i pochi che fanno eccezione alla regola. Ma la regola infame è quella. Pensai che dal ’92, anno delle stragi, al 2010 non era cambiato nulla nel sistema cooptativo siciliano. Se non sei cooptato puoi pure essere Rubbia: non hai niente da fare nell’Università di Palermo.Lo stesso vale negli altri ambiti.
Non mi stupii, ma me ne addolorai, quando quel ragazzo si lanciò dal balcone perchè qualcuno gli aveva detto, tra quei corridoi, che “non aveva futuro”. Per fortuna molti il futuro lo hanno: altrove. E se ne vanno. Ma è questo che spetta ai nostri figli?
L’Ateneo palermitano è tra gli ultimi Atenei per qualità della ricerca che abbiamo in Italia. Vi chiedete perchè?
Ha un buco di bilancio impressionante. Vi chiedete perchè?
I cognomi di chi lavora sono pochissimi e sempre ricorrenti. Vi chiedete perchè?
Chi lo sostiene? I nostri e i vostri contributi.
A chi serve? Non certo alla ricerca. Non certo allo sviluppo libero e competente delle menti migliori.
A meno che non siano cooptate.
Chi lo guida adesso è da decenni connivente di tutto, e addirittura adesso si candida a Sindaco.
Dove se ne vanno i migliori? Dove non sono costretti a fare una telefonata, dove non sono costretti a fare parte di un clan e dove non devono essere loro a dire grazie ma viceversa il grazie arriva quando sono capaci di produrre, di riuscire, di regalare sviluppo. Dove non dovranno aspettare i 50 anni per vincere un concorso da ricercatore, con i capelli solo un pò meno bianchi del professore ormai 80enne che non si decide ad abbandonare la poltrona. Dove non dovranno mettersi in fila di fronte alla segreteria di qualcuno.
Dove l’autonomia e la libertà di giudizio critico e di pensiero sono un valore aggiunto e una qualità e non un onta o un ‘offesa. In una parola: dove avranno la possibilità di usare la loro libertà e di metterla in frutto al meglio.
Se ne vanno. Altrove. Intanto in Sicilia affondiamo e ci illudiamo di “combattere per il cambiamento” armando qualche banchetto per strada, se siamo al di qua, o accaparrandoci qualche poltrona se siamo di là. Ma non viene in testa a nessuno che se non cambiano i modi c’è poco da fare: non cambierà nulla e il destino del degrado è già segnato e costante.
Palermo è in cima ai dati dell’emigrazione giovanile: 29.000 tra i nostri giovani migliori hanno abbandonato, con dolore, la nostra città.
Per non tornare fino a quando le cose non cambieranno. O per tornare al momento opportuno per cambiarle davvero, mutando il dna generazionale. Io farei una legge che persegua penalmente in modo determinato i comportamenti illeciti in tal senso dentro gli Atenei, come altrove.
Queste cose non possono avere il coraggio di dirle i ragazzi che le subiscono e che ne sono vittima, ma qualcuno dovrà pure iniziare a dirle.
Magari qualcuno di noi che sta già rifacendo la valigia per tornare ad andar via.
Io penso che la vera questione in Italia, la questione di tutte le questioni sia quella giovanile, connessa col merito, con la sfida dei saperi e delle conoscenze e con la possibilità di dar corso alle proprie aspirazioni in modo adeguato e libero.
Se non si risolve questa è inutile far altro.
Se non si risolve la questione l’esodo non diventerà mai un controesodo e la Sicilia, il sud, saranno destinati ad essere deserto.
Mila Spicola (Nota da FB 1° ottobre 2011)
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