Brexit: se Londra divorzia da Bruxelles
Il prossimo 23 giugno i cittadini britannici saranno chiamati a decidere circa la permanenza del loro paese nell’Unione Europea. È la realizzazione di un impegno assunto dal premier David Cameron durante la campagna elettorale per ottenere un secondo mandato per indire un referendum sull’Unione.
La paura della Brexit ha già prodotto alcuni risultati. Grazie ad una trattativa con la UE Cameron ha ottenuto la possibilità di limitare per un certo numero di anni l’accesso al welfare per i cittadini comunitari e l’esenzione per la Gran Bretagna da ogni obbligo di partecipare ad ulteriori step dell’integrazione europea.
Risultati che, ovviamente, sono stati subito portati nella campagna di Cameron per restare nell’Unione. Tuttavia il partito conservatore si è spaccato perché una parte (l’ex sindaco di Londra Boris Johnson, il ministro della giustizia Michael Gove e molti parlamentari) stanno facendo campagna elettorale per la Brexit insieme ai populisti dell’United Kingdom Independence Party di Nigel Farage. Con qualche defezione, invece, sono per la permanenza nell’Unione i laburisti, i verdi ed i liberali. La Confindustria britannica e gran parte dei sindacati hanno chiesto ai loro iscritti di andare a votare per rimanere nell’Unione.
Il governo Cameron dopo aver concluso l’accordo con l’Ue ha diffuso uno studio che quantifica in circa 3.000 sterline l’anno a famiglia il costo dell’abbandono dell’UE; gli euroscettici hanno subito contestato le cifre, Johnson ha stimato in almeno 2 miliardi i costi della permanenza nell’Ue mentre Farage ha sottolineato che rimanendo legata a Bruxelles Londra dovrà accogliere diverse centinaia di migliaia di migranti l’anno per molti anni.
Tutti i principali analisti affermano che in caso di Brexit i cittadini britannici sconterebbero la gran parte dei costi, tuttavia e’ assai difficile fare stime precise e capire quali economie sarebbero maggiormente penalizzate da un evento con un grande potenziale destabilizzante. Di certo nel breve periodo sarebbe cruciale il ruolo della politica monetaria. Se da una parte il divorzio allenterebbe i legami tra Londra ed il mercato unico aprendo spazi per le principali piazze finanziarie UE, (Parigi, Francoforte e Milano in testa) dall’altra costituirebbe un ulteriore segnale di sfiducia per il progetto europeo appesantito dalla crisi economico-finanziaria e in difficoltà fin dalla bocciatura della costituzione europea.
In ogni caso non sarà possibile fare un quadro attendibile delle possibili conseguenze della Brexit se prima non sarà noto come verranno ricomposte le relazioni tra Londra e gli altri Stati UE. Per esempio sarebbe possibile far aderire la Gran Bretagna allo Spazio Economico Europeo. In questo modo il Regno Unito si troverebbe in una situazione analoga a quella di Norvegia, Islanda e Liechtenstein. Tuttavia il presidente della Commissione Juncker e il ministro dell’economia tedesco Schauble hanno fatto intendere che non saranno concessi percorsi privilegiati a Londra. Inoltre la Gran Bretagna fuori dalla UE dovrebbe rinegoziare tutti gli accordi commerciali in un momento storico in cui l’opinione pubblica e i governi non sono molto favorevoli al libero scambio. Londra per esempio potrebbe trovarsi fuori, ammesso che venga concluso, dal TTIP, il più importante trattato commerciale della storia. Si tratterebbe di una conseguenza forse gradita ad una parte della sinistra britannica ma non certo ai thatcheriani del partito conservatore e dell’UKIP.
In molti, a partire dal governatore della Bank of England, hanno ammonito che la City fuori dall’UE potrebbe diventare più debole. Vi sono diverse alternative: alcune grandi banche potrebbero portare il loro quartier generale in una grande piazza finanziaria UE; altre potrebbero portare in Europa continentale solo una parte dei loro uffici londinesi; in ogni caso i grandi gruppi attenderebbero la definizione del nuovo ruolo di Londra in Europa quindi ragionevolmente servirebbero un paio d’anni per avere un’idea del futuro della City (e di Francoforte, Parigi e Milano che potrebbero ottenere qualche beneficio dal divorzio del secolo).
Infine se la Gran Bretagna dovesse abbandonare l’Unione gli scozzesi chiederebbero di ripetere il referendum sull’indipendenza, con Londra che potrebbe perdere un altro pezzo dell’impero e Glasgow in una situazione assai difficile: con un significativo deficit, priva dell’ombrello della City, senza la garanzia di poter usare la sterlina, lontana dall’euro e forse anche dalla UE.
Se è facile immaginare che in una UE senza Londra, Parigi e Berlino peserebbero di più è più difficile capire se con un’unione che si ferma alla Manica vi sarebbe meno attenzione alla concorrenza ed al libero scambio. E ancora più arduo è cercare di capire se, senza i liberisti Thatcheriani e senza gli anomali laburisti britannici l’Unione si sposterebbe a sinistra o se in un’Unione senza Londra sarebbe più facile fare le riforme necessarie per fare funzionare l’euro o per dirla con parole più appropriate rendere la zona euro un’area valutaria ottimale.
In conclusione l’analisi economica porta a ritenere che la Gran Bretagna sia il paese più esposto a rischi in caso di separazione; quella politica e della storia recente porta a pensare che la zona euro e soprattutto i suoi paesi più deboli siano i più esposti agli eventi destabilizzanti. Troppo spesso per esempio i paesi mediterranei negli ultimi anni hanno fatto moltissima fatica a gestire crisi realmente o apparentemente nate lontano da loro. Troppo spesso in questi anni la BCE è stato l’unico soggetto che ha sostenuto la crescita. A Londra come nelle altre capitali europee è l’ora della politica o la destabilizzazione prenderà il sopravvento
Salvatore Sinagra
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