Carceri italiane, un sistema malato
La rivolta nelle carceri sembra essersi placata, ma due errori non bisogna commettere: ridurre tutto a una questione di bande criminali e pensare che adesso sia tornata la normalità. Finchè il sistema carcerario non sarà adeguato non vi può essere “normalità”. Pene certe, ma in carceri umane.
Pubblichiamo un articolo di Simone Lonati (docente di procedura penale all’Università Bocconi) tratto da www.lavoce.info
I provvedimenti dell’amministrazione penitenziaria per far fronte all’emergenza sanitaria di questi giorni hanno scatenato rivolte in molte carceri. Ma la situazione di oggi mette a nudo problematiche antiche, che ora richiedono soluzioni urgenti.
LA SCINTILLA DELLE RIVOLTE
Tutti gli studi sociologici spiegano che il carcere è un punto di osservazione particolare attraverso cui è possibile studiare la società e valutarne il grado di civiltà. È da questa convinzione che occorre partire per interpretare gli avvenimenti che hanno sconvolto le nostre carceri in questi giorni: in ventidue istituti sull’intero territorio nazionale sono avvenute sommosse; nelle carceri di Modena e Rieti tredici reclusi hanno perso la vita; a Foggia ne sono evasi 75; a Melfi e Pavia sei agenti penitenziari sono stati sequestrati; a Rebibbia 90 agenti della polizia penitenziaria sono rimasti feriti.
La scintilla da cui sono scaturite le rivolte sono stati i provvedimenti giustamente adottati dall’amministrazione penitenziaria per far fronte all’emergenza sanitaria: interruzione dei colloqui con i familiari (rimane comunque la possibilità di fare tre telefonate alla settimana di dieci minuti e di utilizzare la piattaforma Skype), sospensione dei permessi premio, dei provvedimenti di ammissione al lavoro all’esterno, imposizione di restrizioni ai rapporti dei carcerati con il mondo esterno (viene limitato l’accesso a volontari e associazioni).
Perché queste misure abbiano scatenato le inaccettabili violenze degli scorsi giorni è una domanda a cui non è possibile dare una risposta univoca.
Certamente, vi è stato un difetto di comunicazione tra le autorità e la popolazione detenuta: le ragioni che giustificano le misure adottate non sono state spiegate, o comunque non sono state comprese. Anche la componente emotiva ha svolto un ruolo importante: la preoccupazione per il diffondersi dell’epidemia – che tutti noi cittadini liberi proviamo – ha inevitabilmente colpito, nelle forme più accentuate, le persone ristrette negli istituti penitenziari, improvvisamente private della possibilità di qualunque contatto con il mondo esterno. In più, chi conosce da vicino la realtà delle carceri italiane ha fin dall’inizio compreso come le violenze dei giorni scorsi siano la conseguenza di un sistema carcerario pronto a scoppiare da tempo, anche a prescindere dall’emergenza sanitaria.
È quindi necessario chiedersi quali siano i numeri all’interno delle carceri italiane. Secondo i dati del ministero della Giustizia, le persone detenute in carcere in Italia sono attualmente 61.230 per una capienza regolamentare di 50.931 posti, con un tasso di sovraffollamento pari al 119 per cento. In Lombardia, regione in cui il tasso di sovraffollamento tocca il 140 per cento, gli ospiti delle carceri sono 8.720 per soli 6.199 posti.
La Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato più volte il nostro paese per il trattamento “inumano e degradante” al quale sono sottoposti i detenuti in alcuni nostri istituti penitenziari: celle in cui lo spazio a disposizione di ciascuno è di soli tre metri quadri.
Forse, è necessario chiedersi quale potrebbe essere il giudizio della Corte di Strasburgo sulle condizioni in cui sono costretti a vivere i nostri detenuti in piena emergenza sanitaria. Si pensi solo alla realtà di una cella alla luce della ormai nota prescrizione di mantenere “almeno un metro di distanza” nelle relazioni tra persone: si tratta (almeno nel 50 per cento dei casi nei 189 istituti penitenziari italiani) di ambienti chiusi per la maggior parte delle ore del giorno, popolati a volte da otto detenuti contemporaneamente, dove la promiscuità e la condivisione di umori, sudori, liquidi è inevitabile.
LE MISURE DA PRENDERE
Di fronte a questa realtà, che rischia di aggravarsi a causa degli scontri dei giorni scorsi, è chiaro che occorrono misure specifiche e urgenti. Anche in questo caso, i numeri ci possono dare un’idea: ci sono 8.682 persone detenute che devono scontare una pena residua inferiore a dodici mesi e altre 8.146 con pene tra uno e due anni. Al di là delle proposte di amnistia e indulto – inattuabili in questo contesto politico – è necessario che il governo utilizzi la decretazione d’urgenza per organizzare una task force, composta non solo dai magistrati di sorveglianza ma anche dai magistrati ordinari per il momento sollevati dal carico delle udienze, che si occupi di valutare le istanze presentate ai sensi della legge n. 199 del 2010 (richiesta di esecuzione domiciliare delle pene) almeno per questi detenuti. Si potrebbe così garantire in tempi brevi a detenuti e personale penitenziario quella distanza di sicurezza che al momento risulta essere l’unico antidoto contro il propagarsi incontrollato dell’epidemia.
Infine, un’ultima raccomandazione. L’Italia è uno dei paesi con più personale in carcere, più che in Spagna, in Francia, in Germania o nel Regno Unito, tutti paesi in cui ci sono più detenuti che da noi. Ma da noi il personale è costituito quasi esclusivamente da agenti di custodia. Psicologi sono lo 0,1 per cento, contro una media europea del 2,2 per cento, mentre medici e paramedici sono lo 0,2 per cento, contro il 4,3 per cento della media europea. Significa che nel nostro paese l’idea della pena è ancora legata, nei fatti in maniera assolutamente prevalente, alla dimensione custodiale. Eppure, l’articolo 27 della Costituzione continua ad affermare che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Mai come in questa situazione di emergenza sanitaria, psicologi e personale medico potrebbero, se non fare la differenza, certamente aiutare.
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