Contro l’individualismo della solitudine (di Enzo Rullani)
L’esperienza della crisi, che dura ormai da cinque anni (dal 2007), è un’esperienza che la maggior parte di noi ha vissuto in solitudine. Perché, quando il futuro diventa precario, ciascuno cerca di salvarsi da solo, anche a scapito degli altri con cui ha fino a quel momento lavorato, discusso, collaborato.
In questi anni di crisi, l “gioco del cerino” – ti passo il cerino acceso sperando che a scottarti sia tu – ha minato i rapporti nelle filiere, dove committenti e fornitori non sanno più, ormai, di chi fidarsi per il rispetto dei termini di pagamento e delle clausole di contratto. Ma ha anche separato i destini delle imprese da quelli delle banche finanziatrici, che, al primo stormir di fronde hanno chiesto il rientro dei crediti concessi. E, per finire, ha avvelenato il rapporto con i dipendenti: non solo con quelli licenziati, “esodati” o messi in cassa integrazione, ma anche con quelli che diventano comunque ansiosi per il loro futuro. Così, sentendo il vento della crisi sul collo, finiscono per tagliare i consumi, mettendo le aziende produttrici a bagno.
Insomma, gli ultimi cinque anni ci hanno fornito una perfetta rappresentazione dei danni che l’individualismo diffidente provoca in una economia e in una società dove, in realtà, siamo tutti – e sempre più – interdipendenti. E dove, dunque, non è praticabile l’idea classica dell’economia di mercato: “ognun per sé, e Dio per tutti”.
Perché ci si meraviglia che tanti imprenditori, professionisti o anche lavoratori pensino al suicidio e talvolta arrivino davvero a realizzare il proposito?
In un mondo altamente interdipendente, l’individualismo non solo non funziona, ma ha un effetto depressivo sulle persone, perché, quando le difficoltà arrivano, ti lascia senza risorse. Se non hai i soldi per arrivare a fine mese e la famiglia o gli amici più cari non ti soccorrono, avresti infatti bisogno di appoggiarti – anche solo provvisoriamente – a qualche forma di condivisione da parte degli altri con cui hai avuto scambi e relazioni fino a qualche mese prima. Un rinnovo di fiducia e di ordinativi, una tolleranza nei termini di pagamento dei debiti, una disponibilità a continuare un percorso comune, sia pure a ritmo ridotto.
Ma il “sistema” di puro mercato non è attrezzato per fornire questa forma di condivisione, e, se non ce la fai, ti lascia solo. E’ un esito ingiusto, ma anche un danno per la vitalità dell’economia e della società, perché in questo modo i fallimenti o gli arretramenti diventano una tragedia non rimediabile. Le aziende chiudono disperdendo capacità, quando potrebbero invece – in un contesto di maggiore condivisione – avere la possibilità di tentare ancora e correggere le défaillances emerse.
Per un capitalismo personale come quello italiano, la solitudine delle persone di fronte alla crisi sta cominciando ad essere una debolezza strutturale di fondo. Ma si tratta di una debolezza rimediabile, se apriamo veramente gli occhi per vedere le possibilità aperte dal nuovo contesto competitivo in cui operiamo dal 2000 in poi.
Un contesto in cui collaborare – in modo stabile e affidabile – conviene. Non è soltanto una buona azione, a beneficio delle parti deboli del rapporto. Nell’economia del rischio e della conoscenza, collaborare è, infatti, l’unico modo di lavorare che ha qualche chance di successo sia all’interno delle imprese che nei rapporti tra le imprese. Perché – se ci si pensa – è il modo più semplice ed efficace di affrontare rischi elevati (condividendoli in modo organizzato) e di mettere in comune un pool di competenze che nessuna impresa, da sola, avrebbe la possibilità e la convenienza di crearsi, da sola.
Anche l’individualista più accanito, dovrebbe pensarci: il sapere e le risorse degli altri sono la chiave per fare cose più difficili e più competitive.
Svegliamoci, la diffidenza verso il nuovo non paga più.
Enzo Rullani da www.lib21.org
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