Cosa sono i partiti oggi
Un’analisi lucida e disperata quella di Massimo Franco sul Corriere della sera del 15 aprile. L’articolo parla di partiti. In pezzi. Divisi e già scissi di fatto anche se appaiono uniti. In vista delle elezioni regionali di fine maggio vediamo una scomposizione di forze politiche e alleanze, conseguenza di uno sgretolamento progressivo delle identità, dei blocchi sociali, dei gruppi dirigenti. Soprattutto vediamo che la dimensione locale della politica ha subito un’involuzione che la fa apparire quasi impazzita.
Di fatto si è realizzata una subalternità del sistema dei partiti ad interessi che lo dominano e lo umiliano. Partiti che spesso appaiono come prodotto dell’impoverimento culturale di piccole tribù autoreferenziali che sommano i difetti del dilettantismo a quelli del professionismo del potere.
Le tante inchieste della magistratura che convergono sulle cosiddette classi dirigenti locali confermano questa deriva. E fanno apparire molti Comuni e Regioni come epicentri di un’economia studiatamente inefficiente, funzionale al malaffare.
Dentro questa trasformazione c’è la dimostrazione del fallimento di un’idea di federalismo, ma c’è anche il riflesso delle scissioni sociali che sono avvenute in questi anni in un’Italia affacciata sul vuoto dell’azione politica.
Le migrazioni dei parlamentari da un gruppo all’altro non sono solo frutti dell’opportunismo: rivelano un trasversalismo privo di nobiltà e alimentato da identità debolissime e stralunate. Il cemento è il micro-interesse, e tanti micro-narcisismi collettivi che rendono difficile qualunque aggregazione forte e duratura. La domanda è se e chi riuscirà a ricompattare questo magma centrifugo. Matteo Renzi con il suo modello di leadership verticale ci sta provando, ma il caotico agitarsi di anonimi candidati regionali in tutte le liste finisce per sottolineare l’enorme difficoltà di trasformare dall’alto una realtà mediocre e fuori controllo. Che mette anche in evidenza l’incapacità della politica nazionale a trasmettere messaggi forti di rinnovamento.
Il risultato è che a vincere sembra sia la periferia non governata, immutabile e misteriosa nei suoi gangli più oscuri: quelli che solo la magistratura finora tende a portare alla luce, delegittimando partiti che arrivano sempre dopo. I partiti lasciano ai giudici una supplenza di fatto che assume contorni ambigui e mostra limiti oggettivi perché segue logiche non politiche.
Il crollo della partecipazione a livello locale che si è registrato negli ultimi anni non è un segno di modernità «all’americana»: anche per la rapidità con la quale sta avvenendo, suona come la risposta patologica ad una rappresentanza inadeguata e malata. Se si dovesse confermare a maggio, significherebbe un rifiuto di metodi e di formazioni ormai percepiti come «impazziti». Sarebbe una sconfitta che nessuna riforma elettorale, né la prevalenza di uno schieramento sull’altro, potrebbero attenuare o nascondere.
Il guaio maggiore, tuttavia, non sarebbe il fallimento di una politica locale che per paradosso oggi fornisce tanti governanti, premier compreso; né la scissione di alcuni partiti, ridotti a gusci di identità irriconoscibili. Il rischio vero è quello della scissione tra l’elettorato e chi non è in grado di offrirgli una scelta degna di questo nome. Sarebbe la premessa di una pericolosa democrazia con sempre meno popolo.
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