Crisi del lavoro sì ma non per gli immigrati
La realtà ha molte facce ed è difficile vederle tutte insieme. La realtà è anche mutevole e non procede dal bene al meglio, ma può segnare arretramenti che sconvolgono le vite delle persone. Così sta succedendo da anni nel campo del lavoro per il quale sembra essere scomparsa buona parte delle certezze alle quali erano abituate le generazioni arrivate alla maturità negli anni della crisi. Non esiste forse affermazione che raccoglie più consensi di questa: il lavoro non c’è e se c’è è pagato poco ed è precario. Le statistiche la confermano e i dati sulla fuga all’estero di tanti italiani contenuti nell’ultimo rapporto Migrantes raccontano di una parte, sicuramente coraggiosa e dinamica, delle giovani generazioni che vanno a cercare fuori dall’Italia quella speranza che il nostro Paese non riesce più ad offrire.
Tutto vero, eppure esiste un’altra faccia della realtà, meno visibile e meno considerata sulla quale attira l’attenzione un articolo di Luca Ricolfi (Il Sole 24 Ore del 25 settembre). Ovviamente Ricolfi non disconosce gli effetti della crisi (contrazione del Pil, diminuzione degli occupati totali di un milione di unità), ma punta a far emergere qualcosa che non vediamo chiaramente e cioè che la crisi non è uguale per tutti.
Esiste, infatti, una parte della società italiana che, negli anni della crisi, si è rafforzata sistematicamente, passo dopo passo. Si tratta degli occupati immigrati che alla fine del 2008 erano circa 1milione e 600 mila e che a distanza di otto anni crescono di 800 mila unità mentre gli italiani perdono 1,2 milioni di posti di lavoro.
Scrive Ricolfi che “queste cifre spiegano molte cose, ad esempio, perché l’opinione pubblica sia così poco convinta dall’ottimismo ufficiale. La ragione è che l’opinione pubblica resta costituita soprattutto da italiani (gli stranieri sono meno del 10%), e gli italiani hanno subito una mazzata che le cifre dell’occupazione globale, inflazionate dall’avanzata degli immigrati, non sono in grado di rilevare”. Infatti per tornare ai livelli del 2008 mancano “solo” 400 mila posti di lavoro, ma tale dato sconta una differenza tra la perdita di 1,2 milioni a totale carico degli italiani e una crescita di 800 mila a favore dei lavoratori immigrati.
Tre sono le ragioni che spiegano tale andamento.
La prima discende dall’incremento della percentuale di stranieri nella popolazione che, di per sé, aumenta la probabilità che questi ottengano un maggior numero di posti di lavoro.
La seconda ragione è “che, durante la crisi, la domanda di lavoro è crollata nelle posizioni ad alta qualificazione (tipicamente ricercate dagli italiani) ed è aumentata sensibilmente in quelle a bassa e bassissima qualificazione (tipicamente accettate dagli stranieri)”.
La terza ragione è quella che deve suscitare una maggiore riflessione perché è più difficile accettarla. Scrive Ricolfi “anche se molto si lamentano della situazione e della mancanza di prospettive, la realtà è che la maggior parte degli italiani hanno raggiunto un livello di benessere sufficiente a renderli alquanto” esigenti nella ricerca di un lavoro. Infatti “in tanti non cercano semplicemente un lavoro, bensì un lavoro adeguato all’opinione che essi si sono fatti di sé stessi, opinione che scuola e università si incaricano di certificare. L’esatto contrario degli stranieri, che sono disposti ad accettare un lavoro anche al di sotto, molto al di sotto, delle qualificazioni acquisite e certificate”.
Ovviamente questa situazione la si può interpretare coma una pura e semplice contrapposizione tra diritti e sfruttamento. Oppure la si può anche interpretare nel modo che segue: “Gli stranieri immigrati in Italia sono esattamente come noi, solo che vivono in un altro tempo, un tempo che noi abbiamo vissuto negli anni ’50 e ’60, quando il nostro livello di istruzione era più basso e non c’erano genitori e nonni disposti a mantenerci finché trovavamo un lavoro coerente con le nostre aspirazioni”. È duro accettare che sia anche questa la spiegazione del divario tra posti persi e posti guadagnati, eppure appare abbastanza plausibile se solo pensiamo quanto possa essere difficile per chiunque retrocedere rispetto alla famiglia di origine. Certo gli immigrati possono essere ricattabili (meno salario e meno diritti), ma non accadeva così anche negli anni ’50 e ’60 da noi, ma anche all’estero con i milioni di migranti italiani? Anche adesso molti cercano all’estero la risposta alle loro aspirazioni e sappiamo che fuori dall’Italia spesso anche le occupazioni di basso livello sono retribuite meglio che da noi. Ebbene è esattamente ciò che accade agli immigrati quando riescono a trovare un lavoro nel nostro Paese. In Italia il lavoro è pagato poco, ma per loro anche quel poco è importante.
Nell’articolo si ricorda che c’è una responsabilità della scuola perché nel Paese c’è grande bisogno di competenze tecniche e professionali che non vengono fornite da un’istruzione superiore che non le favorisce e che, spesso, vengono ritenute di minor prestigio sociale rispetto al tradizionale percorso liceo-università.
Dando per scontata la crisi ed anche la mancanza di milioni di posti di lavoro per raggiungere uno standard occupazionale adeguato e l’ingiustizia del lavoro mal pagato bisogna dire che la grinta, l’umiltà e la determinazione degli immigrati che si sono bruciati i ponti alle spalle dà a loro una marcia in più proprio come accadeva in Italia negli anni della ricostruzione e del boom economico.
La realtà ha molte facce e bisogna conoscerle per migliorarla
Claudio Lombardi
Condivido la III^ motivazione precisando che la colpa di questa disaffezione al lavoro è delle famiglie che mantengono tanti figli nullafacenti all’università a discapito di quelli, pochi, che vogliono davvero studiare e meriterebbero posti adeguati, spesso occupati dai Trota di turno. Andate a vedere via Zamboni e la zona universitaria di Bologna, popolata da questi ”studenti” ubriachi vocianti e pericolosi con l’assenso delle autorità. Perchè? E io credo che sia così in tutte le altre città universitarie. Certo che i migliori se ne vanno. Qui c’è solo posto per pigri furbi. Poi verrà la seconda o terza generazione di immigrati laureati colti e motivati e ci ”ruberà” i posti direttivi meritatamente. E quando saranno morti nonni e genitori che faranno i nostri pupetti disabituati a faticare per studiare e lavorare?