Dal caso Eternit in giù: diritto o giustizia?
Secondo il procuratore della Corte di Cassazione Iacoviello quando c’è un conflitto tra diritto e giustizia il giudice deve stare dalla parte del diritto. È questo il senso dell’annullamento della condanna al proprietario della fabbrica Eternit di Casale Monferrato. Il diritto, in questo caso, dice che la prescrizione ha fatto decadere il processo e quindi anche la condanna. Indignazione, scandalo, dolore generali che non servono a nulla se non si ragiona.
Prima di tutto, dispiace dirlo, ma hanno ragione il procuratore e la Cassazione. I giudici sono tenuti ad applicare le leggi. Certo le devono interpretare per applicarle ai casi concreti. Ma l’interpretazione non può mai spingersi né a creare una norma né a disapplicarla irragionevolmente. Se ciò fosse possibile verrebbe meno lo stato di diritto e prevarrebbe l’arbitrio delle norme create di volta in volta per specifici casi. Non sono i giudici a scrivere le leggi e solo una grande ipocrisia può far dimenticare che questa responsabilità ce l’ha solo chi siede nelle istituzioni e le dirige: i politici eletti dal popolo.
Inutile tirare in ballo, in questa vicenda, la lentezza della giustizia perché i tre gradi di un processo molto complesso come quello Eternit hanno richiesto 5 anni. Il problema è la norma sulla prescrizione che in Italia è nettamente favorevole agli imputati dato che si calcola dal momento del reato a prescindere da quando inizi il procedimento giudiziario. Nel caso Eternit il reato contestato era di disastro ambientale e la data è quella della chiusura dello stabilimento, il 1986. La prescrizione era dunque certa nel momento stesso dell’avvio del processo. Bisognerebbe ricordare che la durata della prescrizione fu abbreviata nel 2005 con una delle leggi che dovevano favorire la lotta di Berlusconi contro i processi a suo carico. Per aiutare uno sono stati fatti danni a tutto il sistema. E oggi i morti di Casale Monferrato dovrebbero ringraziare innanzitutto i governi Berlusconi per l’ingiustizia che è stata fatta.
Viene spontaneo chiedersi il motivo per cui il processo iniziò con quel tipo di reato – disastro ambientale – e non con quello che si sta mettendo a base di un nuovo processo proprio in questi giorni di omicidio volontario (che non si prescrive), ma la risposta richiederebbe la conoscenza degli atti e competenze giuridiche specifiche che vanno ben oltre i limiti di questa riflessione.
Resta la questione della distanza tra diritto e giustizia che è molto più frequente di quanto lo stupore che ha accolto questa affermazione farebbe pensare. Sono tanti i casi nei quali la si incontra, basta rifletterci un po’. La ritroviamo ogni volta che le norme sono scritte male e la loro applicazione produce ingiustizia. La ritroviamo quando le norme esistono, ma sono applicate in maniera distorta e causano iniquità. La ritroviamo quando le norme non sono applicate e la realtà dei comportamenti dei soggetti diventa essa stessa ingiustizia.
La distanza tra diritto e giustizia la conosciamo fin troppo bene in quanto umani perché il diritto ha sempre tradotto in norme giuridiche rapporti di forza costituiti di fatto nella società. In quanto italiani la conosciamo un po’ di più perché conviviamo da tanto tempo con l’illegalità diffusa che rappresenta una colonna portante della “costituzione materiale” su cui si regge il nostro Paese. C’è una facciata di norme scritte e c’è una trama più o meno occulta di norme di fatto che derivano da posizioni di potere, legittime e illegittime, con le quali si attribuiscono prerogative e si distribuiscono risorse, diritti e doveri in barba a qualunque principio di giustizia.
Il campionario è così vasto che gli esempi possiamo cercarceli da noi. Basta aguzzare lo sguardo e ne troviamo tanti. Questo è il vero problema
Claudio Lombardi
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