Dal caso Saman all’integrazione

Il feroce omicidio di Saman ripropone la questione cruciale dell’integrazione. Inutile nascondersi che molti di quelli che vogliono lavorare in Italia e in Europa provengono da paesi che non riconoscono la separazione tra potere civile e religione e il valore della libertà. A noi sembrano ovvi perché sono le basi sulle quali si svolge la nostra vita eppure sono il prodotto di una lenta e dolorosa evoluzione disseminata di guerre, rivolte, lotte sanguinose. Proprio per questo non c’è mediazione possibile e chi vuole vivere in questa parte del mondo vi si deve adeguare.

È in particolare la libertà delle donne che segna il discrimine e su questa è giusto misurare il livello di civiltà. Molti confondono i problemi che ci sono nei rapporti uomo/donna con i principi e le regole sulle quali si basa la convivenza civile. Si dice che anche in Italia le donne sono ostacolate e oggetto di violenze dimenticando che nel mondo occidentale chi attenta alla libertà delle donne e chi usa loro violenza commette un reato. In altri contesti si tratta, invece, dell’assoluta normalità. Da noi le donne non subiscono limitazioni legali ai loro diritti, possono decidere della loro vita e ciò che altrove è possibile e tollerato da noi è punito con anni di carcere. Anche noi abbiamo un passato del quale vergognarci e che va conosciuto e studiato perché dimostra come siano diversi il punto di partenza e l’approdo al quale siamo arrivati. Anche noi abbiamo avuto le tradizioni che si riflettevano nelle leggi e mettevano la donna in una posizione subordinata all’uomo, ma ce ne siamo liberati.

Proprio perché veniamo da questo passato non possiamo accettare che gente venuta da fuori ci porti costumi e usanze che noi consideriamo inaccettabili e incivili. L’omicidio di Saman si colloca su questo sfondo. Non è un atto criminale a sé stante: è espressione della tradizione che tramanda pratiche arcaiche alimentata e giustificata dalla fede religiosa. Si può comprendere la difesa della propria identità messa alla prova in una realtà completamente diversa da quella che ci si è lasciati alle spalle, ma non si può ammettere l’esibizione di una separatezza che è rifiuto di ogni integrazione e sfida ai nostri valori.

Nel futuro avremo sempre più bisogno di lavoratori che provengono da altri paesi e l’integrazione sarà il problema principale insieme a quello del rispetto dei loro diritti perché non ci può essere integrazione se gli immigrati continuano ad essere considerati macchine da lavoro da sfruttare senza nessun riguardo. L’amicizia e l’esempio contano più di una lezione di educazione civica, ma casi come quello degli indiani nel basso Lazio drogati per farli lavorare di più vanno in direzione contraria e sono emblematici di come spesso si pratichi una doppia morale all’ombra di connivenze e assenze di controlli.

Gli studi demografici indicano che per frenare il calo delle nascite l’Italia avrà bisogno ogni anno di alcune centinaia di migliaia di immigrati. Come pensiamo di conviverci se non si integrano? La strada più semplice per farlo è far leva sui giovani a partire da quelli che nascono in Italia da famiglie di immigrati e da quelli che qui ricevono un’istruzione. Decidere che sono cittadini italiani è il modo più semplice per integrarli.

La cittadinanza ai giovani immigrati nati in Italia o che qui si sono formati è indispensabile ed è un punto di partenza per il coinvolgimento delle famiglie. La superiorità dell’Occidente i nuovi arrivati la devono percepire nella vita che si apre loro davanti. Diritti, rispetto della persona, giusta retribuzione, servizi e capiranno che i valori che abbiamo conquistato non sono chiacchiere vuote

Claudio Lombardi

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