Dibattito pubblico: troppe chiacchiere e confusione

Tre indizi fanno una prova diceva Agatha Christie. Probabilmente siamo già oltre, ma basta mettere insieme il covid con le infinite diatribe sulla pericolosità della malattia, sui mezzi di protezione, sui vaccini (e con un’agitazione di piazza diffusa sostenuta da forze politiche e sociali importanti) e la guerra in Ucraina per avere la prova provata che l’Italia è il ventre molle dell’occidente, quello sul quale è facile premere perché l’opinione pubblica è sempre pronta a rispondere agli stimoli di un’informazione confusa e di un dibattito pubblico aggrovigliato fra un’infinità di sfumature diverse tra le quali si perdono sia la gerarchia delle fonti sia i criteri di competenza ed autorevolezza sia, soprattutto, i fatti. Tutto diventa opinione e tutto assume lo stesso valore. Ci ricordiamo bene il portuale di Trieste che pretendeva di avere come interlocutori il Papa, l’Onu, il presidente Usa e che manifestava chiari segni di confusione mentale e di profonda ignoranza intervistato da tutte le tv e portato nelle case di milioni di italiani come se fosse un interlocutore credibile.

Lo spettacolo più indecente lo hanno dato e lo stanno dando le tv lanciate da conduttori affamati di ascolti all’inseguimento di una parte del popolo dei telespettatori, quelli più sbracati, litigiosi, allenati ad assorbire gli stimoli più diversi, ad ammucchiare informazioni false mischiandole con quelle vere, a tenere in gran conto le finte verità “alternative” riprese dai canali di diffusione della disinformazione dei servizi russi. Non di sola caccia a questo tipo di ascolti si tratta, però, ma di vera e propria creazione di un pubblico che risponda a questi criteri.

Lo dice Franco Di Mare direttore di Rai 3 in una recente intervista al Foglio: “Ma se io in un programma di approfondimento TV invito uno che dice che 2+2 è uguale a 5 sto rispettando il pluralismo delle opinioni o sto mettendo su un tendone da circo?”. “Facendo così, io non sto offrendo strumenti utili per decriptare la realtà. Sto facendo un’altra cosa. E per giunta fingo di fare informazione, che è un’aggravante. Perché in realtà sto soltanto alimentando la confusione del pubblico per due miserabili punti di share. In questo modo faccio anche un servizio al partito dello sfascio generale, lavoro per la cretinocrazia”.

È lo stesso meccanismo di cui parla Iuri Maria Prado in un articolo su www.linkiesta.it  che denuncia una specie di gara fra tv a mettere sul palco “il maggior numero di mentecatti, farabutti, mentitori, magliari”. Nel caso dell’invasione dell’Ucraina c’è, però, di peggio. Il fine di chi organizza i talk sembra essere quello di accreditarli mettendo tutti i punti di vista sullo stesso piano deformato della chiacchiera che si legittima da sola in un diluvio di distinguo e di sovrapposizioni di informazioni nel quale i fatti si perdono in una confusione generale che surriscalda gli animi e blocca le menti.

È un meccanismo di amplificazione della sfiducia nelle classi dirigenti, le vituperate élite, contro cui si scagliano da anni tutti i movimenti anti sistema. Anche in questo caso il mondo dell’informazione partecipa alla creazione e formazione del suo pubblico. Si avalla senza contestarla e senza fornire elementi di riflessione la ribellione contro il non meglio specificato “sistema” e contro élite che sono comunque anche il prodotto di una selezione indispensabile a qualunque società organizzata. Si conferisce valore alla folla che si ribella non avendo in testa alcun progetto alternativo. Il massimo che seppero proporre i 5 stelle all’apogeo della loro crescita fu la parola d’ordine dell’onestà. I gilet gialli francesi nemmeno quella: volevano sfasciare e basta.

A furia di dare valore a questo magma incandescente accreditando qualunque tipo di protesta e contestazione come frutto di un non meglio precisato “disagio socialeal quale bisognerebbe comunque inchinarsi come se lì fosse la chiave per affrontare i grandi problemi della nostra epoca, ci si abitua ad un metodo: l’agitazione fine a se stessa come coagulo di qualunque insoddisfazione.

Un potente sistema di libertà piegato all’inconcludenza di un mare di chiacchiere, di pulsioni e di umori.

Non c’è da stupirsi se nella sua guerra all’occidente la Russia di Putin sia diventata una delle principali centrali di organizzazione della disgregazione delle opinioni pubbliche dei paesi occidentali e di bombardamento del loro rapporto con le istituzioni e con il sistema democratico. Lo ha fatto con la disinformazione clamorosamente spacciata per “verità alternative”; lo ha fatto finanziando molti politici, agenzie di stampa, siti, movimenti, giornali e quant’altro potesse servire ad indebolire i suoi avversari storici.

In Europa l’opera ha avuto un particolare successo e si è accompagnata ad una strategia di dipendenza energetica dalla Russia che è penetrata sia nei movimenti dell’ambientalismo più radicale come in quello istituzionalizzato (è nota la vicenda del WWF tedesco finanziato da Gazprom; leggi qui). L’Italia resta però il ventre molle, il terreno di caccia preferito da Putin potendo contare su un singolare mix di ignoranza diffusa, attitudine alla faziosità, bassi livelli di lettura di giornali e libri, bassi livelli di scolarizzazione, mancanza di un’identità nazionale condivisa e riconosciuta, diffidenza per l’autorità e lo Stato e perdurante tendenza anarcoide.

A questo quadro preoccupante cosa contrappone la Russia di Putin? Un regime granitico raccolto intorno al proprio capo e tenuto insieme da un consenso popolare vastissimo e da una sistematica repressione di ogni pur minimo dissenso. Lì non c’è ribellione contro le élite, non c’è disagio sociale, è tutto molto semplificato. Sarà questo il motivo del fascino che Putin esercita su molte menti deboli in occidente?

Claudio Lombardi

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