Dpcm Conte: i nostri limiti di fronte al virus
Per un virus che si trasmette con il respiro non c’è altro da fare. Stare lontani gli uni dagli altri è la prima misura da prendere. L’ultimo provvedimento del Governo, l’ennesimo Dpcm di Conte, non fa che ribadire questa semplice verità e facendolo condanna moltissime attività commerciali e ricreative ad una crisi che per tanti sarà irreversibile. Dato il punto cui siamo arrivati e dato il prevedibile sviluppo nell’immediato futuro non c’era altro da fare. Una sconfitta per tutti.
Per le autorità di governo nazionali e regionali innanzitutto che hanno utilizzato male il tempo trascorso dall’inizio della pandemia. Lo stato di emergenza sanitaria fu dichiarato il 31 gennaio, ma nel momento dell’esplosione del contagio (quasi un mese dopo!) si scoprì che mancavano quelle protezioni raccomandate persino nel piano pandemico che risaliva ai primi anni 2000. La sanità regionalizzata ha fallito perché è mancata l’uniformità degli interventi. Alcuni italiani sono stati protetti di più e altri di meno e il prezzo è stato di enormi sofferenze. Da quel momento si è andati sempre alla rincorsa del virus per non anticiparne l’espansione con provvedimenti impopolari. Centinaia di miliardi di euro sono stati messi in campo per poi scoprire che buona parte sono stati sprecati perché distribuiti a pioggia e che spese essenziali per la sanità territoriale, per gli ospedali, per i trasporti pubblici, per la scuola non sono state fatte. Polemiche infinite su tutto hanno nascosto una scala di priorità confondendo le opinioni e distogliendo l’attenzione fino al capolavoro di un’estate passata all’insegna del “liberi tutti”.
Sconfitta per le opposizioni che si sono contrapposte al governo sfruttando ogni occasione per metterlo in crisi dicendo tutto e il contrario di tutto, urlando nelle piazze e in Parlamento all’insegna di un’irresponsabilità esibita e praticata con atti, parole ed esempio. Si tratta delle stesse forze politiche che nell’estate del 2019 stavano mettendo in fila gli argomenti per andare allo scontro con l’Unione europea con il dichiarato proposito di lasciare l’euro e di mettere in crisi l’Europa. Chi fossero gli sponsor di tale follia lo si è scoperto in seguito quando si seppe dei rapporti fin troppo chiari con la Russia di Putin.
Sconfitta per gli italiani che avevano dato prova di responsabilità e di compattezza nei mesi del lockdown e che, disorientati dalla propaganda negazionista e da quella di Salvini, frastornati dalle dichiarazioni di alcuni esperti che avevano proclamato la morte clinica del virus e confusi dal lassismo esibito dalle autorità di governo che avevano permesso ogni tipo di assembramento, hanno progressivamente abbandonato le precauzioni che avevano adottato a marzo e aprile. Ma anche italiani una parte dei quali culturalmente refrattari ad ogni tipo di disciplina sociale e che, tuttora, vediamo circolare senza rispetto delle regole o dar vita a guerriglie urbane per le quali in altri contesti pagherebbero un prezzo molto salato.
Ciò detto bisogna aggiungere altre considerazioni. La pandemia è tale perché è globale. Nonostante l’enorme progresso scientifico e tecnologico nell’ordine naturale siamo pur sempre mammiferi con specifiche vulnerabilità, esseri soggetti a cicli biologici e vitali, esposti alle malattie e destinati alla morte.
Mentre la ripresa del contagio tocca quasi tutta l’Europa mentre altrove è ancora in corso la prima ondata (negli Usa per esempio), in altre nazioni il virus lo hanno fermato. In Cina, in Corea del sud, a Taiwan, in Vietnam. Spiegare come ci sono riusciti va oltre le intenzioni e le competenze di chi scrive, ma una cosa è certa: il sistema di tracciamento e la disciplina sociale nel rispetto delle regole decise dalle autorità si sono rivelati decisivi.
Non può certamente essere un caso che in tutto il mondo occidentale non si è trovato un modo efficace per tracciare i positivi e per avvisare del rischio i loro contatti. E nemmeno è un caso se le semplici regole indicate fin dall’inizio per il comportamento delle persone (mascherine, igiene, distanza) sono state oggetto di innumerevoli polemiche, di trasgressioni, di dileggio e, infine, di vere e proprie forme di ribellione solo in questa parte del mondo.
Nella cultura occidentale i diritti dell’individuo e il rispetto della privacy hanno assunto una sacralità che non è limitabile nemmeno di fronte ad una minaccia mortale per l’intera collettività. Come se tenere nascosti gli spostamenti di un portatore di virus fosse un diritto naturale primigenio e non una banale convenzione sociale. Nelle culture orientali, invece, l’individuo viene dopo la collettività. Questa differenza di culture si è sempre tradotta in differenze di stili di vita e di rapporti tra entità statali, società e individui, ma mai come in questo frangente se ne sono viste le conseguenze.
La Corea del sud è un paese democratico, ma lì non hanno esitato a mettere in funzione un sistema di tracciamento efficace che prescinde dal rispetto della privacy o, meglio, che ne tiene conto nella misura in cui ciò non contrasti con la necessità di fermare la diffusione del virus. Potevamo fare altrettanto in Italia, Francia, Germania, Usa ecc? No.
Nelle crisi i nodi vengono al pettine. Prima bisogna rendersene conto e poi bisogna avere il coraggio di scioglierli. Non lo può fare un governo, non lo può fare l’opposizione, non lo possono fare i cittadini di loro iniziativa. Solo insieme ci si può provare. Si farà? Probabilmente no
Claudio Lombardi
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