Ebrei e arabi in Palestina, alle origini del conflitto
“Sia per gli Arabi che per gli Ebrei, la partizione in due Stati offre una prospettiva – assente in qualunque altra proposta politica – di ottenere l’inestimabile dono della pace, che sicuramente vale qualche sacrificio da parte di entrambi”.
Queste parole non sono tratte da qualche Agenzia di stampa che riporti la dichiarazione odierna di qualche leader, ma sono contenute nel Rapporto Peel, datato 1937, al quale ho solo aggiunto l’espressione due Stati, perché quello è il senso. Lettura molto consigliata (eccolo).
Nel 1937 la Palestina era sotto mandato britannico, mandato conferito dalla Società delle Nazioni (la mamma dell’ONU) e questo rapporto è stilato da una commissione e indirizzato proprio alla Società. È quindi redatto da un organismo terzo, rispetto ad Arabi ed Ebrei (con entrambi i quali la Gran Bretagna aveva buoni rapporti), ed è stato scritto prima della Shoah. Ovviamente è stato anche scritto prima della nascita di Israele, che avvenne una decina di anni dopo.
Si parte dal dato che la presenza di ebrei in Palestina, e la fondazione di una loro autonoma comunità, è ormai un fatto compiuto (The Jewish National Home is no longer an experiment); si stima in 400mila la popolazione ebraica a fronte di un milione circa di Arabi (oggi la popolazione presente è 10 volte maggiore). Si propone quindi la suddivisione del territorio in due Stati, con la maggior parte del territorio agli Arabi, a riflettere la diversa numerosità della popolazione. Questo piano di partizione, come noto, fu rigettato in toto dagli Arabi mentre gli Ebrei, seppur con molti mal di pancia, erano meglio disposti ad accettarlo (Ben Gurion in particolare).
Al piano di partizione (oggi diremmo dei due Stati) si arriva dopo aver escluso altre forme, magari preferibili in astratto, quali un unico Stato o uno Stato cantonale o federale. E questo per il semplice fatto che l’ostilità tra i due gruppi etnici era così esacerbata che l’unico modo per evitare contatti diretti era proprio la separazione. Anzi: si immaginava che al formarsi delle due entità statali ci sarebbero stati trasferimenti di popolazione araba dalla parte ebraica, e viceversa. Cosa che, fa notare il rapporto, era successa negli anni ’20, e in breve tempo, per Turchi e Greci.
La presenza degli Ebrei (ora diremmo Israeliani, ma allora non c’era Israele e li definivano così) era aumentata molto negli ultimi anni, così come, del resto, quella degli Arabi (ora diremmo Palestinesi, vale quanto sopra) per immigrazione (i primi) o movimento naturale della popolazione. L’arrivo degli Ebrei era stato permesso dal fatto che avevano acquistato quelle terre da possidenti arabi, spesso latifondisti, magari residenti a Istanbul o Beirut. Quelle terre furono rapidamente bonificate dagli Ebrei; come nota il rapporto “la gran parte della terra che oggi è agrumeto era dune di sabbia, paludi o non coltivata quando fu acquistata“.
La lettura di questo documento forse potrebbe sfatare alcuni luoghi comuni. La crisi non nasce con Israele e con la successiva Nakba, ma nasce anni prima, tanto che già negli anni ’30 si concludeva che l’unica soluzione fosse quella dei due Stati, soluzione che poi l’ONU adottò dieci anni dopo quando sancì la nascita di uno stato ebreo (Israele) e di uno arabo (che però non vide mai la luce perché Egitto e Giordania occuparono le terre destinate agli Arabi di Palestina). Lo Stato di Israele, come molti continuano a credere e ripetere, non nasce come riparazione della Shoah, magari per senso di colpa degli europei che l’avevano permessa, ma viene prefigurato ben prima. L’occupazione delle terre, a differenza di quanto credano in molti, non avvenne manu militari, ma perché alcuni (molti) Arabi vendettero le loro terre agli Ebrei. Già nel 1937 la presenza degli Ebrei veniva considerata irreversibile, e appariva ineluttabile la convivenza di due popoli e due etnie, nello stesso lembo di territorio ma in due entità politiche differenti perché impossibile la condivisione di una casa comune.
Sottolineo il fatto che già nel 1937 la presenza ebraica in Palestina risultasse un fatto compiuto. Questo perché in molti, negli ultimi tempi, ci tengono a far sapere di essere antisionisti. Il che, per carità, è posizione lecita, ma è completamente fuori tempo, un po’ come dichiararsi contrari alla dissoluzione dell’Impero Austro Ungarico. Non siamo negli anni ’20 del ‘900, quando il dibattito poteva essere di attualità: ormai, che si sia antisionisti o meno, la realtà di una presenza politica autonoma degli Ebrei è riconosciuta da 86 anni, ed è un dato di fatto. Appunto: come la dissoluzione dell’Austria Ungheria.
Dal 1937, però, sono passati 86 anni durante i quali non ha fatto che trionfare la legge di Murphy, vale a dire che se una cosa può andar male, lo farà. In particolare, dato che in entrambi gli schieramenti ci sono coloro che rivendicano quella terra tutta per sé, ogni tentativo di trovare una sistemazione con la Partizione in due Stati è stato ripetutamente sabotato e, alla fine, hanno vinto i sabotatori. È una litania interminabile l’elenco delle occasioni perse, dal 1947 al 2000, e, a suggello della Legge di Murphy, a rappresentare gli uni e gli altri, ci sono oggi Hamas e Netanyahu così diversi in tutto tranne che nel rifiutare l’ipotesi due Stati.
Il 7 ottobre Hamas ha scientemente portato questo processo ad un livello superiore. Dopo il pogrom, dopo la reazione israeliana su Gaza, che era il vero obiettivo di Hamas, le forze inclini al dialogo è assai difficile che si rafforzino. Ed era ciò che Hamas voleva. Il 7 ottobre non ha fatto altro che esacerbare animi già esacerbati e che erano esacerbati 86 anni fa. Oggi in un campo e nell’altro si è tornati indietro di 100 anni: scandire Free Palestine (dal fiume al mare) è riaffermare l’esclusività palestinese su quella terra. Progettare l’espulsione dei palestinesi da Gaza verso l’Egitto sarebbe un passo verso l’esclusività israeliana. 86 anni dopo siamo ritornati alla casella di partenza, con 86 anni di lutti in più.
Jack Daniel (tratto da facebook)
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