Europa e seconda ondata, che cosa è andato storto

Pubblichiamo un articolo di Angelo Romano tratto da www.valigiablu.it

Per contrastare l’incremento rapido e costante dei contagi del nuovo coronavirus di quest’autunno, gran parte dell’Europa ha fatto ricorso a nuove misure restrittive.

Il primo ministro spagnolo Pedro Sánchez ha dichiarato lo stato di emergenza nazionale, l’Italia ha diviso le regioni in aree di tre colori diversi con interventi più duri a seconda del livello di rischio del contagio, la Germania ha adottato un lockdown parziale per tutto il mese di novembre, il Portogallo ha chiuso due terzi del paese, Francia, Grecia, Regno Unito e Belgio sono in lockdown fino a dicembre. Decisioni sofferte prese muovendosi sul sottile equilibrio tra la cura della salute pubblica, dell’economia e del benessere psico-emotivo della popolazione.

Non era certamente questo lo scenario che i paesi europei prefiguravano quando tra agosto e settembre i contagi hanno iniziato nuovamente a salire dopo il calo di fine primavera, le condizioni erano migliori rispetto all’inizio della pandemia a marzo, la diffusione del virus procedeva ancora per piccoli focolai – originati per lo più da “contagi di rientro” (dalle vacanze) – che sembravano controllabili attraverso l’opera di testing, tracciamento e isolamento dei nuovi positivi. Si era in una fase in cui era possibile prevenire quello che non volevamo accadesse in futuro – e cioè che l’aumento contemporaneo di molti focolai potesse rivelarsi troppo forte rispetto all’argine garantito dalla sorveglianza epidemiologica e dal contact tracing sul territorio e mettesse di nuovo a dura prova gli ospedali – e c’era la speranza di poter impedire una nuova impennata dei contagi con interventi più limitati e mirati.

Invece, «l’Europa è ancora una volta l’epicentro di questa pandemia», ha detto lo scorso 29 ottobre il direttore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) per l’Europa, Hans Kluge.

“Cosa è andato storto?”, si chiede in un articolo su Science il giornalista scientifico e biologo molecolare Kai Kupferschmidt.

Quando quasi tutti i paesi europei stavano uscendo dai rispettivi lockdown e andavano incontro alla cosiddetta “fase 2”, sapevamo che non sarebbe stato semplice uscirsene e che ci stavamo muovendo in un territorio inesplorato. «Siamo riusciti a raggiungere la scialuppa di salvataggio, ma non mi è ancora ben chiaro come arriveremo a riva», aveva detto sempre a Kupferschimidt l’epidemiologo della Harvard T. H. Chan School of Public Health, Marc Lipsitch, lo scorso aprile.

Se l’efficacia dell’isolamento e del distanziamento sociale era stata scientificamente dimostrata, non sapevamo quali sarebbero stati nell’immediato e a lungo termine gli effetti delle nuove riaperture.

 

Si potevano riaprire le scuole? E i ristoranti? E i bar? Le persone potevano tornare a lavorare nei loro uffici? Avremmo potuto riprendere la vita di prima dell’inizio della pandemia senza che l’aumento dei contagi andasse fuori controllo? Il valore da tenere sotto osservazione, si è detto, era l’indice di replicazione del virus (R): se superiore a 1, l’epidemia cresce, se inferiore o intorno a 1, la diffusione rallenta o resta costante (ogni persona ne infetta un’altra). Per gestire il valore R, «i governi hanno tre comandi sul cruscotto: testare e isolare le persone positive e tracciare i loro contatti, non aprire indiscriminatamente i confini, far sì che le persone continuino a mantenere il distanziamento fisico», commentava all’epoca Gabriel Leung, esperto di malattie infettive e decano di Medicina all’Università di Hong Kong. «Per tutto il prossimo anno, prepariamoci a diversi cicli del genere, durante i quali le misure vengono inasprite e ammorbidite in modo da mantenere la pandemia sotto controllo a un costo economico e sociale accettabile».

In questa direzione andavano anche le indicazioni dell’OMS che invitava a valutare le misure da prendere in base allo stadio di controllo del contagio; alle capacità del sistema sanitario di rilevare testare, isolare e trattare ogni caso di persona infetta e di tracciare ogni suo contatto; all’organizzazione delle strutture sanitarie e delle case di riposo; all’adozione di misure preventive nelle scuole e sui posti di lavoro in modo tale da poter gestire l’assembramento di più persone; alla gestione dei cosiddetti “contagi di ritorno” o “di importazione” (dall’estero); al coinvolgimento dei cittadini e alle raccomandazioni da dare su come comportarsi nella “nuova normalità”.

Come è andata? Possiamo dire, osserva Kupferschmidt, che il sistema di testing, tracciamento e isolamento ha funzionato in alcuni paesi europei fino a quando il numero di contagi non è diventato così alto da far saltare i sistemi di tracciamento, come spiegato in più occasioni anche dalla Cancelliera tedesca Angela Merkel a proposito dell’andamento dell’epidemia in Germania.

Meno bene è andato il controllo delle frontiere. Non sono stati limitati gli ingressi e le uscite tra i paesi dell’Unione europea né sono state adottate procedure di tracciamento transfrontaliere, e questo ha indubbiamente agevolato l’aumento dei contagi, tenendo conto che il virus in estate non era stato eradicato e che fino a quando l’andamento dei contagi sarà disomogeneo tra i diversi Stati non potremo tornare a viaggiare e a spostarci come un tempo. Le micce accese dai tanti cosiddetti “contagi di ritorno” hanno fatto sì che le fiamme raggiungessero le cerchie di amici, parenti e contatti stretti e hanno creato nuovo carburante (popolazione suscettibile all’agente patogeno) per incendi più grossi.

Infine è stata abbassata la guardia rispetto al mantenimento del distanziamento fisico che è la spina dorsale di ogni strategia di contenimento del virus, la cui diffusione si nutre dei comportamenti sociali di ciascuno di noi.

Invece di usare l’estate per azzerare i casi, l’Europa si è rilassata ed è andata in vacanza, scrive Kupferschmidt. Le persone sembravano non avere più paura del virus, hanno sempre più infranto le raccomandazioni sul distanziamento fisico, sull’utilizzo delle mascherine e sull’evitare i grandi raduni, aggiunge Michael Meyer-Hermann, modellista del Centro Helmholtz per la ricerca sulle infezioni, coinvolto nell’elaborazione dei piani di lockdown della Germania. In quel momento abbiamo creato le premesse di quanto stiamo vedendo oggi, considerato anche che il virus probabilmente ha vita più facile per le temperature più fredde e per lo spostamento di gran parte delle attività al chiuso, spiega Adam Kucharski, epidemiologo della London School of Hygiene & Tropical Medicine.

E ora?

“Ripenso alle parole di Lipsitch di aprile e ho l’impressione che l’Europa a un certo punto abbia deciso di tuffarsi di nuovo, di provare a raggiungere la riva a nuoto e, resasi conto di non potercela fare, stia tentando di raggiungere di nuovo la scialuppa di salvataggio”, commenta Kupferschmidt su Twitter.

Invece di predisporre in estate un piano a lungo termine per gestire gli scenari peggiori, l’Europa ha creduto di essere pronta a numeri più grandi con le forze e gli strumenti utilizzati d’estate, quando la diffusione dei contagi viaggiava a ritmi molto più bassi, osserva ancora Kucharski.

Abbiamo pensato che “il sistema di monitoraggio e i protocolli e le infrastrutture create nei mesi scorsi, uniti ai dispositivi di protezione individuali e a tutto il resto, ci avrebbero garantito una convivenza con il virus, senza avvicinarci al collasso”, scrivono Paolo Giordano e Alessandro Vespignani sul Corriere della Sera. “Alla luce di quanto è già successo — non di quanto sta per succedere — possiamo ammettere che «convivere con il virus» è stato uno slogan promettente, ma che la realtà ci sta dicendo altro. Ovvero che il virus è molto più efficiente della nostra idea di efficienza” e che sono “difettosi anche certi principi sui quali è stata impostata la nostra ipotetica «convivenza»: (…) agire solo quando il contesto lo rendeva inevitabile, agire solo quando la gravità della situazione faceva apparire le restrizioni giustificabili alla maggioranza della popolazione”.

Fino a quando continueremo a inseguire il virus, rischieremo di aprire e chiudere senza riuscire a controllare a pieno l’andamento dell’epidemia e di andare “su e giù” come i denti di una sega, con gravi ripercussioni sull’economia, afferma Albert Osterhaus, virologo presso l’Università di Medicina Veterinaria di Hannover, in Germania.

«Più tardi intervieni, più la diffusione del virus rischia di diventare incontrollata, più a lungo rischi di dover fermare tutto, maggiori sono i danni per l’economia», aggiunge Devi Sridhar, direttrice del Programma di Salute Pubblica Globale all’Università di Edimburgo, nel Regno Unito. «Se si aspetta per intervenire che il livello di infezione nel proprio paese sia abbastanza alto, probabilmente si rischia di stare in lockdown 3 mesi invece di 2 settimane».

Secondo una recente ricerca, condotta dall’Usher Institute dell’Università di Edimburgo, nel Regno Unito, sugli effetti dell’introduzione e dell’allentamento delle misure restrittive in 131 paesi nel mondo, già dopo una settimana si possono iniziare a vedere i risultati delle chiusure. In particolare, gli autori della ricerca stimano che un intervento simile a un lockdown totale sembra portare alla riduzione dell’indice di contagiosità del 35% dopo una settimana, del 42% dopo 14 giorni e del 52% dopo 28 giorni. Meno immediati gli effetti delle aperture: l’indice di replicazione del virus inizia a salire due o tre settimane dopo le riaperture, e questo può portare a percepire con ritardo l’aumento dei contagi.

A questo punto, secondo Osterhaus, all’Europa non resta che fare quanto non ha fatto in estate: azzerare i casi con un lockdown lungo e rigido e la chiusura delle frontiere sulla falsariga delle strategie applicate con successo da Cina, Australia e Nuova Zelanda, e poi rafforzare il sistema di tracciamento e fare come Corea del Sud e Giappone che riescono a tenere sotto controllo l’epidemia anche in presenza di eventi occasionali di sovradiffusione, senza necessariamente dover chiudere tutto.

Per ora, l’Europa è lontana sia da Cina, Australia e Nuova Zelanda sia da Corea del Sud e Giappone e sembra essere bloccata in un terzo scenario: fare un lockdown per evitare il collasso del sistema sanitario, conclude Kupferschmidt. Più che testare, tracciare, isolare, la strategia sembra essere quella delle 3R: riduci, riapri, ricomincia da capo

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