Ex Ilva: come muore la grande industria

Articolo di Roberto Pensa, ingegnere, ex-dirigente dell’acciaieria di Taranto tratto dal sito www.pietroichino.it . Vedi anche dello stesso autore L’acciaio pulito (come altrove) è possibile

IL PASSATO

L’Acciaieria di Taranto (allora denominata ILVA) fu acquisita dal gruppo RIVA dallo Stato nel 1995. Il gruppo avvia, con gradualità, un processo di riammodernamento e ristrutturazione degli impianti e raggiunge in breve tempo alti livelli di competitività sui mercati mondiali. Questo ciclo, industrialmente prospero, ma con elevata conflittualità con il territorio a seguito di problemi ambientali, si concluderà nel 2012 e la fabbrica attraverserà un difficile  periodo con l’intervento diretto della magistratura.

È una conclusione traumatica, con modalità senza precedenti: sequestro degli impianti e management inquisito. La fabbrica, senza mai più riprendersi, accumula considerevoli perdite. Il Governo italiano, che nel frattempo ne ha riacquisito la proprietà con una sorta di esproprio dal gruppo Riva, cede con un «contratto d’affitto» la gestione operativa al gruppo franco-indiano, Arcelor-Mittal in previsione di un futuro acquisto.  L’operazione si conclude nel novembre 2018.

Il gruppo Arcelor-Mittal è un colosso nel settore dell’acciaio e può apparire una soluzione corretta, ma inevitabilmente Taranto perderà la sua centralità in Europa.

In realtà, il percorso tracciato nelle varie azioni governative per uscire dalla situazione critica aveva una logica: risolvere l’impatto ambientale con le migliori tecnologie e con le necessarie modifiche impiantistiche che vengono individuate. Un percorso naturalmente complesso sia sotto l’aspetto tecnico, sia per gli elevati costi e con tempi di realizzazione lunghi.

Sta di fatto che a tutt’oggi, pur avendo adeguato gli impianti alle migliori tecnologie, la fabbrica continua a non essere accettata, non convince sui risultati e da parte di alcuni ne viene chiesta la chiusura.

Il caso di Taranto è certamente una situazione estremamente rappresentativa, direi un caso da manuale, per la sua complessità e le numerose sfaccettature.

Va sottolineato che già a partire dal 2009 la fabbrica aveva notevolmente migliorato il livello delle proprie emissioni e, dal 2012 al 2023, nessuno dei  parametri di inquinamento risulta fuori dai limiti di legge. (*)

A seguito del difficile rapporto con il nuovo acquirente Arcelor-Mittal, (in realtà si tratta di un contratto di affitto da trasformare in acquisto successivamente), subentra nel dicembre 2020 lo stato italiano con una partecipazione di Invitalia con una quota del  38%. Viene così costituita la nuova società Acciaierie d’Italia. La partecipazione di Invitalia con quota al 60% viene fissata per il  maggio 2022 ma soltanto dopo il superamento delle condizioni sospensive previste a contratto, tra le quali, in particolare, il dissequestro degli impianti da parte della magistratura. Senonché la magistratura nega il dissequestro e quanto previsto per maggio 2022 viene rinviato di due anni: al 2024.

Questi accadimenti portano a un situazione di stallo: per mancanza di capitali e liquidità l’azienda, nonostante che la domanda di mercato non faccia difetto, ha grande difficoltà a produrre e a crescere.

IL PRESENTE

Oggi il problema ecologico, almeno per gli aspetti legati al rispetto dell’Autorizzazione integrata ambientale, sembra superato con il rispetto dei parametri di legge. Se si vuole di più, bisogna affrontare conversioni impiantistiche dei processi di produzione che si inquadrano in un progetto più ampio e complesso per la decarbonizzazione con utilizzo di forni fusori elettrici; ma allora il problema da ambientale si trasforma in qualcosa di più complesso e di indefinito.

È davvero un peccato che la fabbrica tarantina non riesca ancora a decollare in termini di produzione di acciaio e di risultati economici per avviare, finalmente, quella conversione che in molti Paesi si sta concretamente mettendo in moto. Questa situazione perdura, anzi si aggrava, nonostante che dal 2020 sia intervenuta nella gestione della fabbrica la società pubblica Invitalia con una partecipazione del 38% e che dovrebbe anche avere un ruolo di controllo  visto che il socio al 62%, il colosso Arcelor-Mittal, è di fatto una società concorrente.

A ogni insediamento di un nuovo Governo si mostrano segni di interesse per la risoluzione del problema: si ribadisce il carattere strategico del sito industriale, si emette qualche provvedimento legislativo a supporto, ma poi tutto sembra tornare come prima. È un “film” già visto varie volte: le ridotte risorse economiche che vengono poi messe in campo, non consentono di fatto alcun tipo di effettivo rilancio ed è ben noto che se la fabbrica di Taranto non sviluppa gli adeguati volumi di produzione stenta a realizzare profitti.

È davvero poco comprensibile che una struttura impiantistica come quella di Taranto, che ha tre altiforni disponibili, ne utilizzi oggi solo due, pur avendo un terzo altoforno fermo e pronto a partire; e che abbia pianificato la produzione per il corrente anno di solo 4 milioni di tonnellate di acciaio e per l’anno 2024 la produzione di 5 milioni di tonnellate di acciaio. La marcia con i tre altiforni, con una fabbrica ben funzionante, consente la produzione di circa 6 milioni di tonnellate e questo sarebbe possibile da subito in quanto l’AIA consente questo livello di attività. Invece gli impianti restano fermi, sia a monte sia a valle degli altiforni: si fa un gran ricorso alla Cassa Integrazione; e non certamente per crisi di mercato ma per motivazioni non ben dichiarate e poco trasparenti.

È ben noto che l’azienda ha una crisi di liquidità che le impedisce di produrre non potendo acquisire le necessarie materie prime o le attività di supporto per il funzionamento degli impianti. Siamo pertanto di fronte ad un controsenso industriale, a un vero e proprio paradosso:  “non ho soldi, non produco: quindi perdo fatturato e dispongo di ancor minore liquidità”. Un circuito vizioso senza fine, fuori da qualsiasi schema manageriale accettabile. La fabbrica dunque non è più la realtà produttiva di sviluppo economico, non è più “la proprietà” da salvaguardare con attente operazioni di mantenimento e di sviluppo.

Certamente non è colpa dei dirigenti operativi delle varie aree produttive, ridotti ad esecutori di direttive imposte dal top management ed espropriati del loro ruolo.

Nel frattempo, però, si compiono fantastiche evoluzioni sulle conversioni della fabbrica (che invece continuando così, non ha alcun futuro) e si mettono in campo opzioni e visioni futuribili per la riduzione dei “gas serra” nella produzione di acciaio. Poi si va in controtendenza parlando di ricostruzione di AFO/5 (quando, invece, per una decarbonizzazione effettiva, il ciclo siderurgico con l’altoforno dovrebbe essere gradualmente abbandonato). E si mettono in campo sempre nuove ipotesi: dissalatori, riduzione diretta, forni fusori elettrici, e ancora, energie rinnovabili; progetti di applicazione dell’idrogeno che vengono pianificati per il prossimo decennio pur sapendo che i costi sono proibitivi e non si sa bene chi se farà carico. Sembra una fuga dalla realtà.

In questi giorni, invece, la società tedesca Thyssen Krupp, ha definito un progetto per 1800 milioni per la realizzazione di impianti per acciaio totalmente “green” per 2,5 milioni di tonnellate anno, questo è un fatto concreto, è un ordine d’acquisto verso la società SMS ed è prevista la conclusione per il 2026.

Le società Invitalia e Arcelor-Mittal, pur dando loro atto della difficile situazione della fabbrica (ancora oggi sotto sequestro), non sembrano raccogliere le reali necessità di questo complesso industriale, mostrano segnali di reciproca diffidenza per interessi, forse, contrastanti. Di conseguenza non vengono messe a disposizione le reali necessità finanziarie per la ripresa produttiva, il rilancio e la conversione dei processi. A maggio 2024 è prevista la revisione del contratto e l’acquisizione della maggioranza da parte di Invitalia. Restare congelati sino a quella data per ulteriori interventi vuol dire perdere ulteriore tempo e denaro pubblico.

Il Governo sembra essere uno spettatore di questa imminente catastrofe, limitandosi a tranquillizzare gli animi e senza un’azione che rafforzi concretamente il comparto industriale, cercando solo di sanare le piaghe lungo il percorso.  Sembra la classica “patata bollente” che viene scansata dalle forze politiche. Questo è estremamente grave perché si tratta della fabbrica più importante del Paese, indispensabile per il settore meccanico, per lo sviluppo della quale negli anni passati sono state spese tante risorse ed energie pubbliche. L’unica cosa che viene messa in campo oggi e che potrà avere,  forse, uno sviluppo, è la realizzazione di impianti di riduzione diretta DRI in quanto sono state messe a disposizione risorse – un miliardo di euro – per l’investimento (solo se sarà utilizzato, in parte, idrogeno prodotto però con energie da fonti rinnovabili). Ma tutto questo deve accompagnarsi a una fabbrica efficiente altrimenti sarà tutto inutile.

Se si continua così, se gli investitori non interverranno apportando consistenti quote di capitali per far sì che si raggiunga la sostenibilità della acciaieria e la capacità di produrre ricchezza ed autofinanziarsi, il risultato sarà solo quello di una perdita di ricchezza del nostro patrimonio industriale che va gradualmente degradando, portando sempre più il nostro territorio a una crescita della povertà.

La siderurgia di Taranto oggi costituisce un grande problema che richiede risorse economiche di rilievo che, allo stato attuale, nessun privato potrà affrontare da solo. Serve dunque uno “Stato imprenditore”; ma lo Stato fatica a mettere in campo i capitali e la managerialità che sarebbero necessari.

(*) Una attenta analisi della situazione dei monitoraggi degli aspetti ambientali e sanitari si trova nel volume Taranto e la siderurgia. V. anche https://drive.google.com/file/d/1LvFdxNBi8zDhxxql_lI1xppiFQhzCWz0/view?usp=share_link.

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Fornisci il tuo contributo!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *