Fermezza e cooperazione. La via italiana verso l’Albania funzionò
“I nostri cittadini, giustamente, si aspettano che sia l’Europa a decidere chi può venire da noi e in quali circostanze, e non i trafficanti e i contrabbandieri”. Così Ursula von der Leyen oggi in occasione del Consiglio UE dedicato al patto su migrazioni e asilo. Basterebbe questa affermazione per dare sostanza ad una politica europea sull’immigrazione. Abbiamo bisogno di lavoratori stranieri e tutti hanno diritto di spostarsi, ma deve essere chi accoglie a decidere il quanto e il quando.
Sull’immigrazione gli interessi nazionali prevalgono sempre e l’ognun per sé fa il paio con l’arte di arrangiarsi. Il tutto sublimato nel Patto di Dublino che segue il vecchio adagio partenopeo “chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato, scurdammoce ‘o passato”. Da anni le diatribe politiche girano intorno alla spartizione dei migranti. Sempre presentati come la salvezza delle economie e delle società europee, in realtà sembra che ogni stato (e in Italia ogni regione e persino ogni comune) preferisca ospitarne il minor numero possibile. Viene il dubbio che la narrazione sia artificiosa e in contrasto con la realtà.
Da anni si sa che un’Africa sottosviluppata non può che produrre decine di milioni di migranti che vanno in cerca di migliori condizioni di vita. Un bel guaio sia per l’Italia che per l’Europa e anche per l’Africa che si vede privata di tanti giovani che potrebbero contribuire allo sviluppo delle loro comunità. Da anni l’unica politica europea è la passività: ci si acconcia a ricevere tutti i migranti che riescono a partire e la grande discussione è su chi ne raccoglie di più in mare e dove li porta sia perché il mare fa più notizia sia perché le vie di terra sono già state sistemate a suon di miliardi con la Turchia. Non si è mai deciso di dotarsi di una politica vera nei confronti dei paesi di partenza né verso quelli di provenienza. Appunto: la passività di chi sa che può solo ricevere ciò che altri decide di mandare.
Qualcuno ha parlato di blocco navale, ma è stato trattato quasi come un criminale nazista dimenticando che proprio l’Italia tanti anni fa lo attuò un blocco navale e a farlo fu proprio un governo di centrosinistra.
Lo racconta oggi Carlo Panella su Linkiesta QUI il link al testo del quale riportiamo alcuni estratti.
“Nessuno lo ha ricordato, ma Giorgio Napolitano, nel 1997, ministro dell’Interno, fu tra coloro che imposero un rigido blocco navale all’Albania, preoccupato per i riflessi sull’ordine pubblico dell’afflusso di migliaia di migranti irregolari. Con lui, nel decidere il blocco navale, buona parte del Gotha della sinistra: Romano Prodi presidente del Consiglio, Walter Veltroni vicepresidente del Consiglio, Nino Andreatta ministro della Difesa e poi i ministri Pierluigi Bersani, Carlo Azeglio Ciampi, Franco Bassanini, Rosy Bindi, Vincenzo Visco, Luigi Berlinguer, Anna Finocchiaro, Livia Turco.
Nessun ministro si dissociò, anzi, dal decreto ministeriale emesso da Nino Andreatta del 4 marzo 1997 che ordinò alla Marina Militare di effettuare un blocco navale fin dentro le acque territoriali dell’Albania con la regola d’ingaggio di «fermare, visitare, dirottare anche navi non italiane e riportarle sulle coste albanesi». L’intervento militare italiano arrivò a distruggere molti gommoni all’interno del porto di Valona. La decisione del blocco navale venne presa a fronte di un afflusso in Italia di trentamila profughi albanesi dal dicembre 1996 all’aprile del 1997. Una piccola quota parte, un quarto, rispetto ai flussi del 2023.
La situazione dell’Albania allora era simile a quella della Libia di oggi. Il governo centrale del presidente Sali Berisha era scosso dal fallimento delle società finanziarie piramidali e esercitava un controllo parzialissimo sulle città e su un territorio in mano a bande armate e milizie irregolari in un clima di guerra civile. Durazzo e Valona, porti di partenza verso l’Italia, erano in mano ai clan criminali degli scafisti. Il governo albanese quindi siglò col governo dell’Ulivo italiano un accordo che autorizzò di fatto il blocco navale anche all’interno delle sue acque territoriali”.
Panella precisa che ricordare quella scelta del governo Prodi non serve ad auspicare che Giorgia Meloni segua quell’esempio, ma ad indurre una riflessione su due elementi fondamentali della crisi migratoria.
“Il primo elemento da valutare è il pieno successo proprio di quelle politiche di esternalizzazzione per affrontare e contenere i flussi irregolari tanto criticate dalla segretaria del Partito democratico. Infatti, un pieno successo arride oggi in Albania proprio alla strategia di affrontare e sterilizzare i flussi di clandestini intervenendo sia manu militari per contrastare gli scafisti, sia alla loro fonte.
Secondo quanto valutato da Milano Finanza dal 1991 ad oggi l’Italia ha effettuato spese in aiuti a Tirana per non meno di un miliardo di euro innanzitutto in missioni militari (Pellicano e Alba) così come in aiuti alimentari alla popolazione. Dunque, un mix di azioni di forza contro gli scafisti e di missioni di peacekeeping in un contesto multinazionale europeo affidate alle forze armate che hanno distribuito beni per centinaia di milioni di euro, ha avuto pieno successo.(…)
Naturalmente, non si vuole ridurre la complessità del fenomeno migratorio che proviene oggi dai Paesi dell’Africa, con quella di un piccolo Paese con solo 2,8 milioni di abitanti. (…) Ma il principio di intervenire sulle radici africane del fenomeno migratorio e di non occuparsi solo dell’accoglienza diffusa sul territorio e della tutela in mare come pare voglia il nuovo Partito democratico, rimane pienamente valido. Intervento dalle dimensioni enormi, che non può essere affrontato solo dall’Italia come sostanzialmente è avvenuto in Albania, ma che deve essere affrontato dall’Europa nel suo complesso. (…)
Qui, francamente, non si comprende il rifiuto di Elly Schlein e del Partito democratico di condividere la strategia del Piano Mattei di Giorgia Meloni per una cooperazione non predatoria con le nazioni africane, per sconfiggere gli scafisti e per definire canali legali di ingresso in Italia. (…)
Qui emerge il secondo punto di riflessione. Il successo della normalizzazione dei flussi migratori dall’Albania – lo ripetiamo, un mix di azioni militari di contenimento e di cooperazione allo sviluppo – è stato conseguito nell’arco di venti anni in un contesto sostanzialmente bipartisan. Governi di centrodestra e di centrosinistra, sia pure in una dialettica dura tra maggioranza e opposizione, hanno sostanzialmente perseguito una politica omogenea e coerente nei confronti di Tirana.
Oggi invece Elly Schlein si pone in una posizione di totale estraneità e di rottura completa con le strategie del governo, pare non comprendere che le politiche di esternalizzazione hanno tempi lunghi, decennali, e arriva sino a contestare duramente i tentativi di un accordo quadro tra Italia e Unione Europea con un governo tunisino che vede un Kaïs Saïed campione di correttezza democratica a paragone di quel para criminale di Sali Berisha con cui fecero accordi di blocco navale Romano Prodi e Giorgio Napolitano.
D’altronde, se si applicasse il criterio del rispetto dei diritti dell’uomo e della correttezza democratica non sarebbe possibile siglare accordi di nessun tipo con la quasi totalità dei Paesi africani”.
L’unica integrazione all’analisi di Carlo Panella è che non si tratta solo della Schlein, ma di un vasto arco di forze sia politiche che sociali che religiose ad opporsi ad una politica che unisca la fermezza alla cooperazione per lo sviluppo. Da molti anni si è fatto in modo che la diatriba si svolga su posizioni moralistiche tra chi dice “accogliamoli tutti” e chi replica “respingiamoli”. Il massimo di elaborazione si ha quando si ragiona su quanti lavoratori servano e su quanto incida la crisi demografica. In entrambi i casi l’ipocrisia è dominante perché non si riflette sul fatto che tanti italiani scelgono di andare a lavorare all’estero diventando loro stessi migranti, che gli immigrati non arrivano già formati per i lavori che il mercato richiede e che le politiche di sostegno alla natalità non vanno oltre blandi incentivi. A quest’ultimo proposito ha tenuto banco per anni la discussione sull’auto percezione del genere sessuale mentre sul ruolo generativo delle donne nulla si è potuto dire per non contrastare la narrazione di alcune minoranze e per non apparire dei conservatori. Per quanto riguarda il lavoro è evidente, come il caso del reclutamento degli infermieri in India dimostra, che tanti datori di lavoro preferiscono disporre di una massa di immigrati disposti ad accettare condizioni retributive e di lavoro svantaggiate che implicano anche una scarsa produttività piuttosto che imboccare la via di una crescita che metta alla prova anche il loro stesso ruolo. Spesso chi invoca tanto gli immigrati lo fa per sostenere un modello produttivo arretrato e inefficiente che è uno dei pilastri del sistema Italia
Claudio Lombardi
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