Forconi (di Giuseppe Casarrubea)

Forconi ci sta bene. Li usano in campagna quelli che agganciano le balle di fieno o la paglia per servirla al bestiame. Vecchi tridenti. Prima di ferro, poi di legno. Ma l’oggetto non è il simbolo, neanche lontanamente, del mondo del lavoro. O meglio. Ci saranno certamente anche gli onesti lavoratori e magari quelli che vendono frutta e verdura agli angoli delle strade. Ma scopri che le simpatie che suscitano i manovratori di questi attrezzi hanno nel retroscena qualcosa di oscuro, un non so che di funerario.

E anche questo ci sta bene. Perché quando le cose vanno male e non hai altra via di uscita ai tuoi problemi, la testa ricorre a strani pensieri, e a qualcuno può anche andar di volta il cervello. Come è successo in alcuni casi in Sicilia, come a San Giuseppe Jato dove un disoccupato con famiglia a carico s’è tolta la vita. Ma da quando i bisogni, oltre cento anni fa, hanno cominciato ad avere strutture organizzate e organizzazioni di lotta per liberarsene, alla jacquerie secolare e senza sbocco si è sostituita la lotta organizzata e poi qualcuno ha spiegato che chi lotta deve avere un capo, e qualcuno che indichi la strada.

Purtroppo da un pò di tempo le cose non vanno più così e l’istinto ha cominciato a prevalere sulla ”calma” e il “gesso”, come sentivo dire al mio maestro, Natale Tedesco, a cui Marx, in letteratura italiana, ha insegnato che se vuole applicare, ad esempio, il marxismo alla sua disciplina – cosa che a qualcuno appare ingiustamente fuori dall’ordinario – deve  usare strumenti tecnici adeguati. E non altri inidonei. Perciò dovremmo leggere quello che accade alla luce di un fenomeno di classe, e non di un semplice spontaneismo. Volendo stare a sinistra.

Guardando i forconi e le loro incazzature, ci pare utile, prima di tutto, usare l’accorgimento di non farci trascinare dalle vulgate, anche se comunemente si dice che chi grida di più ha ragione. Qualcuno dà troppo fiato alle trombe, e soffia sempre di più  sui tizzoni accesi.  Forse aspetta che la piazza trascenda. Franco Padrut, ex sindacalista della Cgil di Palermo, di cui il 24 gennaio ricorre l’anniversario della precoce scomparsa,  ci ricorderebbe ancora le manganellate che ricevette per difendere la libertà e la democrazia a Palermo, in una piazza che si batteva solo per lo sviluppo. Altri ci possono ricordare i moti di Reggio Calabria del 1970, quando i fascisti di Ciccio Franco presero in mano la città. Manifestazioni diverse, ma entrambe con un nemico comune al popolo italiano: i fascisti.

Nel movimento dei forconi mi impressiona l’eccesso di anarchismo apparente, il senso del disordine, l’attacco indiscriminato alla collettività, l’assenza di un’autorità contro cui prendersela. Anzi, talvolta sembra che si voglia la salvaguardia dei responsabili dello sfascio che stiamo constatando. Scuole e ospedali sono al freddo, i negozi costretti a chiudere i battenti, le ambulanze non possono soccorrere gli ammalati, i poveri cristi, pur pagandola a peso d’oro non riescono ad avere una bombola di gas da stufa. E via di seguito.

Mi impressiona anche il richiamo ai Vespri siciliani, a una sorta di fosco separatismo, di malandrineria del più forte, di quelli che esibiscono muscoli ed autocisterne, grandi trattori e denaro. Innalzano i forconi, ma hanno in testa le forche. Per impiccarci chi? Dio solo lo sa. Vi ricordate quando rimanemmo tutti a secco, alcuni anni fa, per una settimana? Ci dissero che da siciliani dovevamo pagare la benzina metà prezzo. L’effetto fu che rimanemmo a secco anche di generi alimentari, che dovemmo metterci in fila con i bidoni ai rifornimenti, che subimmo il razionamento dei generi di prima necessità. Come al tempo del “pane di tessera” della buonanima.

Prendere d’assedio un’isola è cosa da bambini. Un’isola indifesa, dove basta bloccare il traffico delle merci sullo stretto di Messina, e i rifornimenti di carburante per avere vinto una battaglia. Anche Lombardo alcuni anni fa cavalcò la tigre che i giacimenti petroliferi della Sicilia dovevano obbligare a dimezzare i prezzi al consumo. Ma noi allora come ora restiamo molto perplessi. Per alcuni motivi.

Primo. Autotrasportatori (Forza d’Urto) e forconi (proprietari terrieri) sono spinti in questa fase dai fascisti e, in particolare, da Forza Nuova. Secondo. I simboli che compaiono in questo movimento delle “cinque giornate” del caos non sono quelli dell’Italia, bensì della Trinacria. E già quella testa a tre gambe mi fa paura. Terzo. E’ impensabile che innumerevoli categorie sociali e produttive, e persino – come si dice – artigiani e pescatori, abbiamo scoperto che c’è la crisi solo ora. La Sicilia non è estranea a simili improvvisi risvegli di consapevolezza. Dai Vespri in poi. Dietro ci sono state sempre scelte di potere. Quando a lor signori i conti non quadrano si mettono tutti assieme a soffiare. Sul fuoco. Dagli svevi alla “mala Signoria” degli angioni, ai tempi di Dante. Dai tumulti palermitani del 1511 che si portarono dietro lo strascico dell’introduzione dell’Inquizione – ai tumulti del  1647 per l’abolizione delle gabelle. Dai moti  del 1820-’21 alla rivolta del Sette e mezzo. Dai tumulti dei fasci siciliani del 1893 dovuti all’introduzione della tassa del focatico (una specie di tassa di famiglia) ai tempi più recenti:  lo sciopero del pane con le decine di morti di via Maqueda a Palermo (1944), i moti del “Non si parte”, per non parlare di leggi truffa e di battaglie per la democrazia condotte in Sicilia e in Italia durante il Novecento.

Questa storia ciclica è attraversata in Sicilia da una unica filigrana: il vittimismo. Come se i calabresi o i napoletani campassero meglio e la crisi più generale che stiamo vivendo non persista già da anni e non sia il frutto anche di chi nell’ultimo ventennio ha mandato l’Italia a carte quarantotto. Abbiamo un Paese in ginocchio pronto a pietire, dove le questioni del Nord o del Sud sono questioni nazionali e dove troppi soffiano sul fuoco della disgregazione nazionale, come se i problemi dei siciliani o dei pugliesi li potessero risolvere solo loro, e come se quelli del Nord potessero stare meglio senza la zavorra meridionale. Fandonie che mettono gli uni contro gli altri.

La disperazione che c’è in giro appartiene al popolo italiano. Perciò non mi persuade proprio il ribellismo localistico, la rabbia violenta, le vetrine rotte, i Tir bloccati, la penuria dei generi alimentari, il blocco dei traghetti, della benzina e delle merci. Non mi piace proprio che ad avere disagi e sofferenze debbano essere i più deboli, quelli che non hanno nè forche nè forconi. Qualcuno dice di essere pronto alle armi e di essere alla ricerca di un leader. Credo che non sarà difficile trovarlo tra i tanti che il nostro Paese ciclicamente produce.

Giuseppe Casarrubea da http://casarrubea.wordpress.com/

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