Gaza: l’ecosistema dell’indignazione

Così Repubblica apre l’ennesimo articolo sul popolo di Gaza, accompagnandolo con l’immagine straziante di una donna che abbraccia un bambino denutrito, nudo, rachitico. Solo che non è Gaza. Non è oggi. E non è nemmeno ciò che l’articolo racconta. È lo Yemen del 2016, durante la guerra civile a Hodeidah. Ma tant’è. Il lettore occidentale non distingue, l’occhio si commuove, il dito clicca. Missione compiuta.
Questa non è più informazione. È un algoritmo sentimentale che seleziona indignazioni prêt-à-porter, e le impagina con parole e immagini intercambiabili. La fame? La mettiamo. I bambini? Obbligatori. Una madre che fissa il vuoto? Serve.
La provenienza della foto? Superflua. Chi vuoi che se ne accorga. E se poi quei rompicoglioni della comunità ebraica si lamentano? Pazienza. Due scuse e via.
Tanto ormai la prassi è rodata: “con quello che combinano hanno pure il coraggio di lamentarsi?”. Non importa se è una bugia. Se produce quella miscela perfetta di pietà e furore che serve a nutrire la narrazione.
Ma il punto è che non si tratta di una svista né di un caso isolato. È un copione. Una tecnica rodata e ripetuta. Si grida alla carestia anche quando non c’è – o meglio: la si esagera, la si assolutizza, la si spettacolarizza.
Basti pensare che, secondo certi media, a Gaza si moriva di fame anche prima del 7 ottobre, eppure ora quella stessa condizione viene trattata come un’“età dell’oro” andata perduta.
Nel frattempo, la misura reale degli aiuti che entrano nella Striscia viene sistematicamente nascosta. Si nega, si minimizza, si sposta lo sguardo.
Non fa notizia il fatto che entrano centinaia di camion ogni settimana, ma si esaltano le microflottiglie dei radical chic – quelle con a bordo attivisti pasciuti e pettinati in cargo equivalenti a un trolley Ryanair – come se fossero la Croce Rossa in Normandia.
Si cancella la presenza della Gaza Humanitarian Foundation (GHF), che ha cercato di creare corridoi coordinati e tracciabili, e che per questo viene ignorata o delegittimata. E quando i miliziani aprono il fuoco nei pressi dei centri di distribuzione, e l’esercito israeliano risponde, la narrazione è pronta: “Israele spara sulla folla”.
Mai che si racconti la sequenza completa o che si ammetta che c’è una volontà deliberata di generare caos, vittime, confusione, purché Israele venga colto nella foto sbagliata, nel frame più accusatorio.
Nel tempo, Hamas perfeziona la sua grammatica della fame. E tra le sue regole c’é quella di non mostrare gli aiuti che arrivano. Non si deve sapere che cosa entra, che l’Egitto ha aperto varchi, che Israele ha consentito il passaggio di convogli. Tutto questo indebolisce la narrazione dell’assedio, e quindi va soppresso. Per questo ai giornalisti viene ordinato di non fotografare i camion. La fame, insomma, deve essere rappresentata come totale, assoluta. E soprattutto: attribuibile.
E intanto nessuno nei grandi giornali italiani pare voler approfondire, verificare, bilanciare. Nessuno chiede perché non si possano vedere i camion. Nessuno nota l’assurdità di raccontare che “non entra più nulla”, mentre si nasconde che qualcosa, invece, entra eccome. Nessuno fiuta il paradosso.
E allora la domanda, oggi, è tanto semplice quanto tragica: chi controlla i controllori, se i controllori sono già parte del racconto?
I media hanno costruito un ecosistema dell’indignazione dove la fame è una coreografia, i bambini sono una call to action, e la morte è un feticcio visivo utile a validare ogni emozione.
La verità? Troppo lenta, grigia, complessa. Meglio una foto forte, anche se falsa. Meglio un testimone anonimo, purché pianga. Nel grande set di Gaza non importa se lo spettacolo sia basato su una storia vera. L’importante è che il lettore provi rabbia, pena o senso di colpa. Purché non faccia domande.
E così torniamo allo zombie perfetto: incapace di distinguere tra Yemen e Gaza, tra un’inchiesta e una fiction, tra fame reale e fame utile. Un consumatore di contenuti emotivi, generati in loop da redazioni che non informano più: riproducono.
Il giornalismo, che interpreta, riscrive, e dirige – a volte anche con la censura, se la sceneggiatura lo richiede. È che ha smesso da tempo di pensare. E, come ogni zombie, è pericoloso perché non sa di essere morto.
“Il mezzo è il messaggio” scriveva Marshall McLuhan. Non conta tanto ciò che si dice, ma come lo si veicola.
È il mezzo — l’immagine, l’algoritmo — a modellare la realtà nella nostra mente.E se il mezzo è marcio, il messaggio può sparire finendo comunque deformato, e usato. Benvenuti nell’era dell’informazione senza coscienza. Mangia bufale, rigurgita emozioni.
E ha sempre fame di Israele.
Alex Zarfati (da facebook)


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