Giovani e lavoro: tre proposte concrete (di Salvatore Sinagra)
Tutti i media riportano l’ultimo dato sulla disoccupazione giovanile, 42,4%. È un dato che fa impressione anche se si riferisce a giovani che in gran parte sono nell’età degli studi. Il dato generale sfiora, invece, il 13% e pure questo è drammatico. Resta il fatto che la crisi colpisce innanzitutto i giovani dei quali, giorni fa, il ricco erede della famiglia Agnelli, John Elkann, ha detto che avrebbero tante opportunità, ma non le colgono perché sono mammoni. Detto da lui fa un po’ rabbia, ma il tema merita attenzione anche perché non è la prima volta che si tira in ballo l’argomento dei giovani che “preferiscono stare in famiglia”.
Poiché affermazioni simili girano da anni mi chiedo se sia da sani di mente pensare che quasi tutti coloro nati dagli anni settanta in avanti siano incapaci o pigri.
Si dice che oggi i giovani possono puntare sui mercati emergenti che prima non c’erano oltre che su l’Europa e gli USA. E’ innegabile che grazie ad iniziative come il programma Erasmus attivo dal 1987 i giovani oggi hanno opportunità di conoscere altri paesi e di tentare di farsi una vita altrove che, di certo, non avevano i ragazzi del dopoguerra. Grazie ai voli low cost, per esempio, un giovane può non solo viaggiare, ma anche fare colloqui di lavoro con facilità e con costi ragionevoli in tutta Europa. Certo, le cose non sono sempre facili e la crisi produce pure reazioni di razzismo e di intolleranza nei confronti di chi viene da “fuori”.
Resta il fatto che è duro a morire lo stereotipo dell’italiano mammone che non rende giustizia ad una nazione in cui la mobilità dei lavoratori è sempre stata elevatissima almeno da sud a nord, e che rischia di tornare ad essere terra di emigrazione. Il 2,3% dei laureati italiani lavora all’estero, contro lo 0,6% dei tedeschi e l’1,1% dei francesi. Certo abbiamo anche record negativi come quello degli studenti fuori corso, ma non è corretto usare questo dato per attaccare l’etichetta di fannulloni a diverse generazioni negando l’evidente realtà che il nostro paese non premia nemmeno coloro che hanno studiato bene e in tempi ragionevoli.
E poi domandiamoci: i giovani a casa stanno veramente così bene? Possibile, ma l’alternativa com’è? Bisognerebbe, infatti, chiedersi come stanno quelli che vivono fuori casa. In una città come Milano per esempio, un precario incontra grandi difficoltà anche nello stipulare un contratto d’affitto. Per non parlare dei prestiti bancari. E poi i lavori sono in buona parte sottopagati rispetto al costo della vita e così in una grande città un giovane che fa il lavoro per cui ha studiato rischia di non potersi permettere altro che una condivisione di un appartamento per anni. Molti giovani, tra l’altro, mentre fanno tirocini e stage di solito ben poco retribuiti sono pure costretti ad arrotondare facendo altri lavoretti: consegna di pizze, lezioni private, servizio presso ristoranti. E’ chiaro che se dopo qualche anno di fatica il giovane (ormai neanche troppo giovane) non ottiene l’incremento di reddito necessario per condurre una vita da adulto, è forte la tentazione di ritornare in famiglia. Se poi a lavori precari si alternano periodi di disoccupazione allora il ritorno a casa è quasi certo. Basta informarsi per capire che la vita autonoma, magari in una grande città, non permette “vuoti lavorativi”.
Così si arriva anche a rinunciare alla ricerca del lavoro. All’estero li chiamano scoraggiati, in Italia li chiamiamo “bamboccioni”. Invece il fenomeno dei lavoratori scoraggiati è una cosa seria ed è determinato in gran parte da fattori economici, sociali e geografici. Il fatto che i giovani disoccupati tedeschi o olandesi siano più attivi di quelli italiani nella ricerca del lavoro non dipende dalla voglia di fare dei popoli nordici, ma in larga misura dal welfare, ovvero da un sistema di aiuti ed obblighi, che spinge, e spesso costringe, i giovani a non demordere nella ricerca del posto di lavoro pena la perdita non solo del sussidio ma anche dei servizi dei centri per l’impiego.
Arriviamo alle proposte. Le riassumo in tre punti:
Un sussidio ai giovani che cercano lavoro. Un sussidio statale potrebbe integrare un reddito da lavoro e sarebbe un incentivo ad iniziare una vita autonoma. Si tratterebbe di una misura di “mobilità sostenibile dei giovani lavoratori” che dovrebbe, però, essere accompagnata da misure per evitare che i datori di lavoro diventino i veri beneficiari di tali interventi “delegando” lo Stato a pagare una parte delle retribuzioni. Un reddito minimo ovviamente non garantirebbe ai giovani disoccupati e precari un tenore di vita elevato, tuttavia darebbe loro uno stimolo ad uscire dalla cerchia degli scoraggiati, evitando che la lunga crisi che stiamo vivendo bruci il capitale umano di un’intera generazione.
Mappe che censiscano le opportunità di lavoro su tutto il territorio nazionale. Ciascun centro per l’impiego potrebbe individuare le competenze che sono richieste nel proprio territorio, poi i diversi centri potrebbero procedere allo scambio di informazioni. In questo modo il disoccupato che apprende da fonte affidabile che le sue competenze potrebbero realmente servire in una data area può prendere in considerazione l’idea di recarvisi senza timore di girare a vuoto.
Un sistema di voucher gestito dai centri per l’impiego, che supporti i giovani che vogliono fare colloqui di lavoro lontano da casa (con tutte le opportune condizioni per evitare che qualcuno se ne approfitti).
Ovviamente tali tre misure non sono in grado di riassorbire nel mercato del lavoro qualche milione di giovani e devono essere adeguatamente finanziate, tuttavia sono preferibili alla facile demagogia di chi risolve la questione parlando di “bamboccioni” o di giovani svogliati. Prima di parlare di merito e di impegno bisogna garantire le condizioni perché si creino opportunità accessibili a tutti
Salvatore Sinagra
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