E se guardassimo alla fragilità dell’Italia?

Cosa c’è che non va nel nostro Paese? La fragilità dell’Italia riguarda tutti noi che ne subiamo le conseguenze. Non è una cosa che tocca solo i giornalisti, gli specialisti, le burocrazie e i politici. Di fronte all’evidenza di un’economia che non cresce, di servizi ed infrastrutture carenti, di una spesa pubblica sempre molto alta la domanda si impone e non possiamo far finta di niente perché lì è la radice di tutto. Guardando le cose con occhi di straniero e, quindi, prendendo distanza dal giorno per giorno, l’impressione è che sia in atto da molto tempo un gigantesco spreco di risorse che non solo non produce sviluppo, progresso e benessere, ma, anzi, costituisce uno degli elementi fondamentali del declino che stiamo vivendo.

spesa-pubblicaLa fragilità si rivela e si descrive in pochi elementi ormai assodati. Il Pil cresce poco (quest’anno sarà l’1%), meno di tutti gli altri paesi europei. E’ così da una quindicina d’anni cioè da prima della grande crisi. Il debito pubblico è il secondo in Europa dopo quello della Grecia e non è giustificato dallo stato del Paese cioè, non si traduce in un miglioramento visibile né delle condizioni di vita degli italiani né dell’economia. Ma si traduce, invece, in un tirare a campare senza sapere dove si va.

Di contro il livello del debito obbliga a politiche di bilancio rigorose non tanto perché ci obbliga l’Europa (c’è anche questo ovviamente), quanto perché c’è bisogno di contrarre nuovi prestiti per circa 400 miliardi di euro l’anno. Se si vuole l’ombrello dell’euro e l’aiuto della BCE bisogna stare ai patti e godersi i benefici di tassi di interesse mai stati così bassi (e con il QE una parte dei titoli li compra la BCE stessa). Se si dovesse rinunciare all’euro il mercato ci chiederebbe interessi molto più alti perché l’Italia non è ritenuta un creditore affidabile (ci ricordiamo che questo significa lo spread?). I cosiddetti sovranisti vorrebbero risolvere tutto stampando moneta come se il mondo fosse popolato di “selvaggi” da abbindolare con le perline.

Un altro elemento poco considerato è l’invecchiamento della popolazione e la propensione al risparmio. Quindi minore domanda e accantonamento di risorse per l’incertezza del futuro.

giovani e lavoroI giovani, per quanto il loro numero sia in diminuzione, ne escono penalizzati perché il lavoro di qualità è scarso e quello poco appetibile (molto impegno, poco guadagno) è comunque già preso dagli immigrati.

Le imprese sono generalmente sottodimensionate, deficitarie in innovazione tecnologica e scarsamente capitalizzate quindi molto dipendenti dalle banche (di qui anche la caccia alla protezione dei politici per accaparrarsi i prestiti degli istituti di credito).

Dovrebbe essere una situazione nella quale la spinta al cambiamento è forte, ma, stranamente, così non è ed è invece diffusa la sensazione di un immobilismo rancoroso e impotente che si accontenta di sfoghi e non sa costruire alternative di governo (crescita del M5S, della Lega e delle destre estreme).

pressione fiscale ItaliaLa spesa pubblica è molto alta ed è pagata, oltre che con il debito, con una pressione fiscale che è di almeno 4 punti sopra la media europea ed un prelievo contributivo altrettanto pesante sul costo del lavoro. Con quali effetti? Carenza di infrastrutture, sistema educativo inadeguato, giustizia lenta, pubblica amministrazione inefficiente. Il tutto accompagnato da una legislazione ipertrofica e farraginosa e poi dai soliti noti: sprechi, corruzione ed evasione fiscale che hanno negli apparati pubblici il loro snodo fondamentale.

Qualche numero può aiutare ad inquadrare meglio la questione. Nel 2008 il debito era di 1.671 miliardi pari al 102% del Pil. Adesso ammonta a 2.240 miliardi circa il 133% del Pil. La spesa per interessi è di circa 70 miliardi più o meno il 4% del Pil ed è tenuta bassa grazie all’ombrello dell’euro e agli interventi della BCE (negli ultimi anni della lira ha oscillato dal 9 al 6%). Inutile dire che negli altri paesi europei assimilabili al nostro la spesa per interessi si aggira intorno a poco più della metà.

Colpisce il dato reso noto di recente che la spesa per interessi dell’Italia negli ultimi dieci anni è stata di circa 760 miliardi di euro, una tassa occulta pagata solo per mantenersi a galla.

sistema ItaliaSi è detto tante volte, però, che il debito pubblico non è necessariamente indice di squilibri economici e di debolezza. Può, al contrario, essere un fattore di crescita grazie agli investimenti. Ebbene anche su questo versante i numeri non ci premiano. Infatti dal 2009 al 2015 gli investimenti sono passati dal 3,4% al 2,2% del Pil mentre la spesa pubblica totale è salita negli stessi anni da 781 a 828 miliardi. Certo, in tempi di “vacche magre” è normale ridurre un po’ le spese, ma qui accade che la spesa cresce, si accende nuovo debito per farle fronte, ma solo per la parte corrente. Cioè non si semina nulla per il futuro, si vive alla giornata.

Spesso si contrappone al debito pubblico l’attivo patrimoniale delle famiglie italiane che è circa il quadruplo del debito. Grazie a questo attivo accumulato nel passato molte famiglie hanno potuto sostenere i giovani ed affrontare gli effetti della crisi economica. Ma questo non può proseguire all’infinito. Come scrive Paolo Bricco sul Sole 24 Ore “il nostro Paese ribalta il motto “il convento è ricco, i monaci sono poveri”. Da noi i monaci sono (per ora) ricchi, perché i monaci – gli italiani – hanno scaricato sul convento – i conti pubblici – gli scontrini  non pagati da consumatori e le evasioni e le elusioni fiscali realizzate con le loro aziende, le pensioni a cinquant’anni senza alcuna corrispondenza con i contributi versati e i prepensionamenti a 48 anni, che negli anni ’80 e ’90 hanno costituito il principale ammortizzatore sociale del sistema consociativo fra le forze politiche, le rappresentanze degli imprenditori e i sindacati”.

Il problema, quindi, non è tanto la libertà di crescita del deficit e del debito pubblico. Il problema è che siamo schiavi di meccanismi di spesa che vengono dal passato tutti centrati sulla spesa corrente che, a sua volta, è basata su un fitto intreccio di posizioni di rendita e di protezioni corporative. E tutto ciò si traduce in immobilismo e spreco.

Conclude Paolo Bricco “ l’insostenibilità è nel meccanismo di finanza pubblica che si nutre – e allo stesso tempo viene nutrito – dal fallimento storico delle nostre classi dirigenti e – in fondo – dall’irresponsabilità civile della maggioranza degli italiani”.

Purtroppo e non si vede all’orizzonte una soluzione.

Claudio Lombardi

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