I miei dubbi sulla revisione costituzionale (di Walter Tocci)
Sono trent’anni che parliamo di riforme istituzionali. È cambiato il mondo ma l’agenda è rimasta sempre la stessa. L’elenco delle cose da fare si è sfilacciato e rimpicciolito, ma campeggia in tutti i programmi di governo. Certo, non c’è più l’entusiasmo iniziale delle tante Bicamerali. In compenso si è tramutato in ossessione.
Il dato saliente del trentennio è il fallimento dei partiti, dei vecchi e dei nuovi, della Prima e della Seconda Repubblica. La classe politica, però, ha oscurato questa causa della crisi di governabilità e l’ha attribuita alle istituzioni. È riuscita con una sorta di transfert psicanalitico a spostare il proprio trauma sulla forma dello Stato. Ha rimosso la propria responsabilità per attribuirla alle regole. In nessun altro paese europeo si è manifestata una simile ossessione, per il semplice motivo che i partiti, pur in difficoltà per ragioni generali, non hanno mai perduto la legittimazione.
“Se non si decide, non è colpa mia ma dello Stato che non funziona”. Questo è il motto del politico, a tutti i livelli, dal governo nazionale all’ultimo dei municipi. Di questo alibi è riuscito a convincere i giornalisti e i politologi – grandi esperti di semplificazioni – e tramite loro l’intera opinione pubblica. Quando la politica è in crisi non perde affatto la capacità di convincimento del popolo, bensì si ritrova ad applicarla alle divagazioni invece che ai problemi reali.
L’equivoco ha alimentato l’accanimento a cambiare le regole, e quando è stato raggiunto lo scopo l’esito si è rivelato negativo. Si fatica a trovare un caso di successo: tutte le regole modificate sono state anche peggiorate.
La divagazione non è stata innocua. Mentre ci occupavamo dell’ingegneria istituzionale, avanzava un pauroso degrado dell’amministrazione statale. La burocrazia, l’inefficienza e l’incompetenza hanno raggiunto livelli inimmaginabili solo trent’anni fa. Le decisioni ormai si prendono solo tramite norme e incentivi, perché non esistono più gli strumenti efficaci per attuare vere politiche pubbliche, come ha denunciato autorevolmente Sabino Cassese.
Il malessere dei cittadini nasce proprio dalla fatica del rapporto quotidiano con la macchina statale, sempre più incomprensibile e bizzosa. Qualcuno si illude ancora che il cittadino allo sportello sentirà giovamento dalla riforma del bicameralismo. La vera priorità sarebbe una profonda riforma dell’amministrazione, che invece è addirittura scomparsa dall’agenda di governo e affidata a un modesto ministro.
Così, l’esaurimento della Seconda Repubblica ci consegna una forma istituzionale sfilacciata e una classe politica disprezzata se non rifiutata dalla metà del popolo. Alla lunga la rimozione della causa politica della crisi non ha funzionato; l’alibi è stato scoperto, e i cittadini hanno attribuito tutte le responsabilità alla Casta.
Eppure, torna all’esame del Parlamento la vecchia agenda di riforme istituzionali. E stavolta si vuole fare sul serio, cambiando prima di tutto l’articolo 138 che è la chiave di sicurezza dell’intera Costituzione. Mi pare incredibile che una decisione di tale rilevanza storico-giuridica sia presa qui frettolosamente, senza neppure conoscere il testo. Chiedo almeno un rinvio perché si possa esprimere la Direzione del partito, già convocata per la prossima settimana, o ancora meglio l’Assemblea nazionale. E su un argomento tanto importante – per la procedura e ancor di più per i contenuti – sarebbe davvero utile ascoltare il popolo delle primarie con una consultazione ben organizzata.
La vecchia agenda resiste perché appartiene alla mitologia politica, cioè a quelle fantasie che durano nel tempo proprio perché evitano di fare i conti con la realtà. Due miti sembrano i più resistenti alla smentita dei fatti.
Il primo è il futurismo legislativo: bisogna fare in fretta, il mondo cambia ed esige velocità nelle decisioni. Sembra una cosa di buon senso, ma nella realtà le leggi più brutte sono anche quelle approvate in fretta: il Porcellum in poche settimane, le norme ad personam di gran carriera, le leggi Fornero sotto lo sguardo ansioso dei mercati (mentre ora tutti vorrebbero correggerle), e così via molte altre.
Approvare una legge è diventata forma di rappresentazione mediatica che prescinde dall’utilità dell’amministrazione: quasi tutte le norme assunte per motivi propagandistici sulla sicurezza, sul fisco e sulle promesse per la crescita si sono rivelate inutili o dannose non appena spente le luci dei riflettori della scena televisiva.
C’è una pericolosa tendenza alla riduzione dei concetti e delle parole. La riforma è ridotta a una congerie di norme, senza alcuna attenzione per i processi organizzativi e sociali della fase attuativa. La decisione è ridotta alla mera approvazione di una legge, senza la profondità culturale e concettuale di una vera innovazione politica.
Il decisionismo si è ridotto a iper-normativismo. Gli snellimenti delle procedure che promettevano un’amministrazione più efficiente in realtà hanno aperto gli argini all’alluvione normativo-burocratica che soffoca la vita quotidiana dei cittadini. Tutti i campi dell’amministrazione – la scuola, i tributi, la giustizia – sono travolti da continui cambiamenti delle regole. Si approva una legge, e prima di attuarla già viene modificata; si accumulano micronorme disorganiche e improvvisate che spargono confusione e contenziosi nell’ordinamento.
La vera riforma dovrebbe, al contrario, rallentare la procedura legislativa: poche leggi l’anno, magari in forma di Codici unitari che regolano organicamente interi campi della vita pubblica, delegando funzioni gestionali al governo e aumentando i poteri di controllo e di indirizzo del Parlamento. Si dovrebbe introdurre l’innovazione della policy analysis rinunciando a legiferare su un argomento prima di aver verificato i risultati della legge precedente.
Ci sono oggi tanti sedicenti liberali; ma fu un liberale vero come Einaudi a fare l’elogio della lentezza parlamentare: meno leggi si fanno – diceva – meglio è per il paese.
Il secondo mito che resiste ai fatti è l’uomo solo al comando. Eppure i guasti della Seconda Repubblica derivano proprio dall’esasperata personalizzazione politica. Sembrava ormai acquisita tra noi questa consapevolezza, e invece vedo crescere una nuova infatuazione. Si confonde la malattia con la terapia. Ho già detto che introdurre il presidenzialismo in Costituzione è come curare l’alcolista con il cognac, se vi piace il modello francese. Oppure curarlo con il bourbon, se vi piace il modello americano. Noi non abbiamo i contrappesi civili degli americani né quelli statuali dei francesi. L’uomo solo al comando si è sempre presentato come una patologia nella nostra storia nazionale, soprattutto oggi nella crisi della politica. Solo in Italia sono potuti diventare protagonisti le due figure opposte e simili del tecnico e del comico, questa addirittura in doppia versione. Tecnocrazia e populismo sono malattie endemiche in Europa. Le cancellerie europee si preoccupano non per noi ma per loro, perché sanno che l’Italia anticipa le innovazioni maligne e hanno paura del contagio del nostro virus.
No, non si tratta della svolta autoritaria paventata da un certo refrain di sinistra. Ma il presidenzialismo non è neppure il semplice emendamento di un articolo, poiché implica la riscrittura di parti intere della Carta. È un’altra Costituzione. Non sappiamo se alla fine avremo ancora la più bella Costituzione del mondo.
Non voglio dire che sia un tabù il cambiamento della Carta. Anzi, ci vorrebbe una policy analysis delle modifiche apportate nell’ultimo decennio. Quasi tutte si sono rivelate se non sbagliate almeno controverse: il Titolo Quinto, approvato in fretta prima delle elezioni del 2001, che oggi tutti vorrebbero modificare; lo ius sanguinis, che abbiamo introdotto per consentire a un figlio di emigranti di votare alle elezioni politiche, molto diverso dallo ius soli che oggi invochiamo per dare lo stesso diritto ai figli degli immigrati che ancora non possono chiamarsi italiani; l’obbligo di pareggio di bilancio, approvato sotto il ricatto dei mercati e dell’establishment europeo, che oggi vorremmo derogare senza sapere come liberarci dalle nostre stesse macchinazioni.
D’altro canto basta leggere il testo costituzionale per notare la discontinuità. La bella lingua italiana, con le parole semplici e intense dei padri costituenti, viene improvvisamente interrotta da un lessico nevrotico e tecnicistico, scandito dai rinvii a commi e articoli, come nello stile di un regolamento di condominio. Sono queste le parti aggiunte dalla nostra generazione. Dovremmo prenderne atto con un certa umiltà, con quel senso del limite di cui parla Papa Francesco. Non tutte le generazioni hanno la vocazione a scrivere le Costituzioni. Che la nostra sia inadeguata al compito è ormai evidente. Lasciamo alle generazioni future il ripensamento dell’eredità costituzionale.
Tanto meno questa ambizione può essere affidata al governo PD-PDL, che si dovrebbe occupare di altre priorità, su tutte quella di creare lavoro per i giovani. Qui si misurerà la sua efficacia, e anche il risultato politico del PD. Al governo Letta servirebbe molto pragmatismo. Non ha bisogno di cercare la santificazione con la revisione costituzionale. E allo stesso tempo non può pretendere di condizionare con la lealtà di maggioranza la discussione sulla Costituzione. Sarebbe la prima volta nella storia repubblicana.
Questo rischio è intrinseco alla mozione sull’articolo 138 che si spinge a “impegnare il governo” nella proposta di revisione costituzionale. E ancora più preoccupante è la correlazione che il testo stabilisce tra la riforma elettorale e il nuovo assetto istituzionale. Il Porcellum, dopo essere stato riconosciuto incostituzionale dalla Cassazione, rischia di essere costituzionalizzato dalla mozione parlamentare, poiché qui c’è scritto che non si potrà approvare una nuova legge elettorale prima di aver concluso il lungo processo di riforme istituzionali. È un assurdo giuridico: la legge elettorale è ordinaria e segue procedure più semplici di quella costituzionale. Ma ancor di più si tratta di un autolesionismo politico per noi del PD, dal momento che cederemmo di nuovo a Berlusconi il pallino della partita. Quando avrà esigenza di staccare la spina, non dovrà far altro che portarci a votare senza alcuna modifica al Porcellum. Già una volta, la scorsa estate, ci siamo fatti gabbare accettando di discutere la legge elettorale insieme al pacchetto istituzionale. Sappiamo come è andata a finire. Siamo rimasti col cerino in mano.
Temo che in casa nostra i professionisti della sconfitta siano ancora nella plancia di comando. Per tutte queste ragioni, non ritengo possibile votare la mozione che apre la strada al cambiamento dell’articolo 138 della Costituzione.
Discorso all’assemblea dei senatori Pd del 28 maggio 2013 (Tratto da http://waltertocci.blogspot.it)
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