I migranti e l’economia italiana: costo o opportunità? (di Salvatore Sinagra)
Da lungo tempo in Italia ha luogo un confronto, e certe volte uno scontro, tra chi afferma che gli immigrati rubano il lavoro agli italiani e chi al contrario sostiene che svolgono lavori che agli italiani non interessano perché i giovani sono viziati e abituati al benessere facile
Entrambe le tesi sono essenzialmente estremiste: il contributo degli immigrati all’economia italiana continua ad essere positivo, perché con la loro età media più bassa di circa 15 anni rispetto a quella degli italiani contribuiscono a tenere in piedi un affannato sistema pensionistico penalizzato da una demografia molto sfavorevole e perché svolgono lavori che la gran parte degli italiani attualmente non fanno più.
Secondo Alessandro Rosina, professore associato di demografia all’Università Cattolica, gli immigrati continuano ad essere sotto il profilo economico un bene per l’economia. Rappresentano il 7% della popolazione, ma producono il 10% del Pil.
Uno dei più grandi esperti di migrazioni, l’economista e sociologo Michael Piore, afferma che in tutti i paesi sviluppati esistono mercati del lavoro paralleli: il mercato primario, caratterizzato da mansioni meno faticose, da retribuzioni più elevate e maggiori tutele, ed il mercato secondario, quello delle 5 P, ovvero dei lavori pesanti, pericolosi, precari, poco pagati e penalizzati socialmente. I migranti in tutti i paesi ricchi presidiano quello che Priore chiama il mercato secondario.
Oggi, però, l’Italia del precariato dilagante e del crescente disagio dei giovani nel mercato del lavoro, forse è meglio rappresentata non dal doppio mercato di Priore ma da un triplo mercato. Il primo mercato è quello dei lavoratori garantiti, che beneficiano di un contratto normale che soprattutto i termini di tutele potremmo definire “contratto europeo”. Tale mercato è presidiato ormai quasi integralmente da coloro che hanno iniziato a lavorare nel novecento o nei primi tre o quattro anni del nuovo secolo. Il secondo mercato è caratterizzato da lavori talvolta anche stimolanti, ma poco pagati e precari, è presidiato dai giovani (paradossalmente) più fortunati di quelli che non hanno un lavoro e dai lavoratori non più giovani, che hanno perso un’occupazione migliore e si sono dovuti accontentare. Il terzo mercato è quello delle 5P di Priore, è ancora presidiato massicciamente da immigrati e, anche se le evidenze statistiche non sono molto significative, pare che a tali occupazioni guardi ormai anche qualche giovane italiano scoraggiato che si trova in condizioni estreme perché per esempio non può appoggiarsi alla famiglia.
Un fenomeno molto studiato negli ultimi tempi è il successo delle imprese gestite da immigrati: si pensi alle storiche fabbriche cinesi nel distretto dell’abbigliamento di Prato o ai bar di Milano gestiti sempre più di frequente da asiatici e sudamericani. Probabilmente in tempi di crisi gli immigrati, meno avversi al rischio o più bisognosi degli italiani, sono più facilmente disposti a cimentarsi in attività commerciali con margini ridotti ed incerti.
Inoltre fenomeno recentissimo è quello delle imprese che delocalizzano, o considerano l’ipotesi di delocalizzare, perché non trovano operai qualificati. Certo sono una piccolissima frazione di quelle che chiudono i battenti per aprire all’estero, ma non è il caso di farle scappare, perché potrebbero essere trattenute con interventi che hanno un limitato costo, quali per esempio sistemi per incrociare la domanda e offerta di lavoro e più facili permessi di soggiorno per persone idonee a svolgere le mansioni in questione.
I lavoratori migranti si concentrano principalmente in quattro contesti: (1) quello dell’industria diffusa, in prevalenza localizzata del nordest e che lavora con modalità tradizionali (e purtroppo spesso arretrate soprattutto sotto il profilo della sicurezza). Tale settore offre lavori anche non troppo precari, ma di certo pesanti, poco pagati e pericolosi; (2) il terziario a basso valore aggiunto che è localizzato nelle grandi città e da’ assistenza al mondo della finanza, alle grandi imprese industriali ed al mondo delle professioni intellettuali (banalmente si pensi alle cooperative che si occupano di pulizie o del ritiro della raccolta differenziata); (3) la cura della persona (colf e badanti); (4) lavori stagionali (per esempio nell’agricoltura nel mezzogiorno e in Trentino).
Secondo l’INAIL tra gli immigrati la percentuale di lavoratori indennizzati è circa il doppio rispetto alla media complessiva e il divario tra immigrati e italiani è presumibile sia ancora più elevato considerato che spesso molte mansioni a rischio sono svolte da migranti nell’economia sommersa. Diverse inchieste hanno poi portato alla luce un sistema agricolo basato sulla schiavitù di migranti in Calabria ed in altre parti del Mezzogiorno. Pagati forse una ventina di euro al giorno per lavorare dieci o più ore e costretti poi a retrocedere ai propri sfruttatori denaro per i pasti, per il trasporto al campo di lavoro e per una casetta di cartone in cui dormire. Inchieste giornalistiche hanno poi denunciato consistenti abusi anche al nord.
Chiaramente tali vicende costituiscono colossali violazioni dei diritti umani e scoraggiano gli italiani ad accettare mansioni meno qualificate.
Pier Paolo Barretta, sottosegretario all’economia, denuncia che coloro che si battono (giustamente) per una sanità e per un welfare pubblici dimenticano troppo spesso che uno dei più importanti servizi sociali, la cura degli anziani svolta dalle “badanti”, è un servizio privato che in gran parte si regge sul lavoro in nero e senza tutele.
L’economista Tito Boeri ricorda che in Francia lo Stato esercita un ruolo significativo nell’intermediazione dei servizi offerti dalle “badanti” e tali mansioni vengono svolte anche da francesi (uomini e donne) come viene raccontato nel libro autobiografico Il diavolo custode, che ha avuto un grandissimo successo con la sua versione cinematografica Quasi amici.
Le conclusioni sono quindi essenzialmente tre: non è vero che gli immigrati rubano il lavoro agli italiani o tolgono loro soldi dalle tasche; non è vero che tutti gli italiani sono troppo pigri ed esigenti per svolgere lavori pesanti e poco qualificati e non è vero che si può pensare di proteggere gli italiani dalla pesantissima concorrenza degli immigrati clandestini disposti a lavorare per pochi euro l’ora o per qualche moneta ed un piatto di pasta al giorno solamente presidiando le frontiere. E’ impossibile controllare metro per metro diverse migliaia di chilometri di costa e a poco servono leggi sull’immigrazione repressive. La soluzione è combattere il caporalato con maggiori controlli, ma soprattutto con maggiori sanzioni per imprenditori e caporali che sfruttano la manodopera irregolare e con permessi a tempo, anche adeguatamente pubblicizzati, per cercare lavoro per chi denuncia gli sfruttatori.
Finché si sanzionerà solo gente debole che non ha nulla da perdere non sarà possibile superare lo sfruttamento figlio del lato peggiore della globalizzazione.
Salvatore Sinagra
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