Il comando politico statale e le cause della sua debolezza

Ogni giorno ci chiediamo cosa non funziona nel nostro Paese. L’emergenza covid ha messo ancora più a nudo le fragilità di sistema che affliggono l’Italia. Un articolo di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera del 12 dicembre prova a dare una spiegazione individuando nella debolezza del comando politico e dei suoi apparati la manifestazione più eclatante del problema. Ripercorriamo l’analisi che la supporta.

La prima considerazione è che la pandemia ha portato ad un inusitato ampliamento dei poteri della politica accompagnato, però, da una strutturale mancanza di autorità, di efficacia della politica stessa e di efficienza degli organi che da questa dipendono. Quali le cause?

  1.  La debolissima legittimazione del governo nel duplice versante della figura di un presidente del Consiglio che non è un vero premier ( e i tentativi di Conte di apparire tale infatti portano a tensioni e forzature anche istituzionali come si è visto nel caso dei dpcm e della cabina di regia del PNRR) e della congenita debolezza delle maggioranze che sostengono il governo (minate da ricatti, contrattazioni, compromessi tra le forze politiche).
  2.  La progressiva evanescenza della macchina amministrativa indebolita da molte riforme confuse. Il resto lo hanno fatto politiche che non hanno puntato sull’efficientamento bensì sulla riduzione del personale, sul ricorso al precariato, su decentramenti improvvisati, su autonomie insulse (caso dell’istruzione), sulla moltiplicazione di Autorità su molte materie diverse, sulla creazione di cabine di regia, «task force», commissari e Commissioni varie. Il tutto si è tradotto nella sottrazione alla PA di poteri e competenze mortificando le professionalità e vanificandone il ruolo. La conseguenza è stata che il potere centrale italiano è privo di un’incisiva capacità di monitoraggio e di controllo sul territorio attraverso le proprie reti istituzionali, e, ovviamente, anche della possibilità di intervenire in maniera efficace.
  3.  La disarticolazione territoriale del potere. Non si tratta tanto dell’introduzione degli enti regionali quanto dello smisurato accrescimento delle loro competenze deciso nel 2001 che ha stravolto il disegno originario della Costituzione e mutato la natura stessa dello Stato repubblicano. L’immagine più visibile di tale disarticolazione si ha nella figura dei presidenti delle giunte regionali. Resi forti dalla loro elezione diretta sono assurti a rappresentanti politici generali di popolazioni regionali che forse nemmeno esistono in quanto tali. Di fatto sono diventati i riferimenti di tutta la politica che si svolge lontano da Roma e non solo per quanto riguarda l’ambito regionale. A fare da contraltare ai presidenti regionali nel governo nazionale ci sono dei ministri e un presidente del Consiglio che non hanno da opporre una legittimazione elettorale (e popolare) allo stesso livello.

Per effetto di questi elementi la capacità del governo di decidere e di vedere eseguite le proprie decisioni, sono diventati del tutto evanescenti. Rischia, così, di venir meno un elemento essenziale della democrazia: la traduzione in atti concreti di governo del programma politico presentato dai partiti agli elettori. La conseguenza è la sfiducia, il qualunquismo, l’antipolitica e, purtroppo, anche la voglia dell’«uomo» o del «governo forte» che spazzi via tutti gli ostacoli e imponga il suo comando.

Il ragionamento di Galli della Loggia termina qui ed è facile dire che ci sono molti altri aspetti da prendere in considerazione quando si parla di un comando politico debole che non riesce ad imporsi. Di fatto il paradosso italiano è che se debole è il governo centrale, deboli sono anche i presidenti delle regioni e i sindaci che pure possono vantare la legittimazione dell’elezione diretta. O, meglio, sono abbastanza forti da dare vita ad una cacofonia di voci in mezzo alla quale si rischia la frantumazione di qualunque politica nazionale. Sono abbastanza forti per piazzare forti sbarramenti, ma non lo sono per portare a termine un progetto compiuto. Basti vedere la perenne litania sulla mancanza di risorse raffrontata all’incapacità di spendere quelle anche abbondanti che sono disponibili. D’altra parte si può pensare che l’efficacia delle politiche pubbliche si raggiunga in una regione e non a livello nazionale? È molto più probabile che accada l’inverso, ossia che si parta da politiche nazionali che poi vengono attuate in sede regionale e locale con i meccanismi di un avanzato decentramento amministrativo. L’esatto contrario di quanto è stato fatto negli ultimi venti anni all’inseguimento di un fantasmatico federalismo all’italiana

Claudio Lombardi

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