Il covid e l’opinione degli italiani

Stamattina ad Agorà su Rai 3 è stato presentato un sondaggio secondo il quale il 93% degli italiani ritiene che si sia arrivati impreparati alla seconda ondata di covid. Ad un altro quesito sulla fiducia nei dati in base ai quali le singole regioni sono classificate come zona gialla, arancione o rossa il 65% ha risposto di non ritenerli affidabili. Il 49%, infine, pensa sia corretto un trattamento differenziato tra regioni per gestire il contagio. I sondaggi, ovviamente, riportano le opinioni del campione di persone che vengono consultate. È dunque impossibile attribuire quelle percentuali come se si fosse espresso il 100% degli italiani. E’ anche vero, però, che i sondaggi sono ormai una tecnica così sperimentata da poterli considerare un punto di riferimento per conoscere la realtà. Con questa cautela, comunque, qualche osservazione si può fare.

La prima è piuttosto ovvia: quel 93% secondo il quale si è arrivati alla seconda ondata impreparati, a cosa esattamente vuole riferirsi? E riesce a ricordare come siamo usciti dal lockdown ai primi di maggio e come sono andati i mesi successivi? Nel sondaggio non è stato chiesto un parere sull’eventuale autocritica che ogni italiano (ogni, poiché il 93% è la totalità) dovrebbe fare, ma sarebbe stato interessante sapere quale percentuale pensa di avere qualcosa da rimproverarsi. Non occorre essere scienziati, basta ricordare quella sera al ristorante quando al tavolo si doveva sedere solo per gruppi familiari e, invece, si è andati in 15. O quel pomeriggio di inizio estate davanti al bar degli aperitivi. O la convivenza con i figli che non vedevano l’ora di incontrare i loro amici e poi tornavano a casa e ci si abbracciava (“no mio figlio sta attento….”). O la cena tra gli amici di sempre, a casa, senza distanze e senza mascherina (“ci conosciamo da anni, sono persone sicure”)? O il ritorno nelle palestre e subito ci si è ritrovati a bordo piscina a fare capannello di chiacchiere con l’istruttore al centro. O le nottate sudati e felici nelle tante discoteche che sono state riaperte un po’ dappertutto. Ah, particolare importante: tutti senza mascherina ovviamente. Bisognerebbe che ognuno ripercorresse le settimane trascorse da maggio ad oggi per domandarsi se per caso ci sia una qualche relazione tra milioni di comportamenti a rischio contagio e la formazione di quel serbatoio di virus che poi ha cominciato a svuotarsi già da metà agosto diffondendosi a macchia d’olio.

Se poi gli italiani pensano che l’impreparazione sia colpa del governo e delle regioni ebbene hanno pienamente ragione. Secondo Nino Cartabellotta presidente della Fondazione Gimbe la prima ondata di covid l’abbiamo subita, la seconda l’abbiamo favorita. Giudizio grave, ma in che modo favorita?

Tranne Salvini, Meloni, Zangrillo e Bassetti tutti sapevano che la seconda ondata sarebbe arrivata in autunno (i quattro citati l’hanno negata con veemenza e supponenza, ma non erano soltanto loro). Tutti conoscevano le vie del contagio: i contatti interpersonali che si svolgono nei luoghi che favoriscono la vicinanza. Dunque che i luoghi chiusi fossero naturalmente quelli privilegiati per il contagio non è una scoperta di novembre. Lo si sapeva fin dall’inizio. E quali sono questi luoghi? Bar, ristoranti e palestre? Sì, ma non solo. Mettiamoci anche ospedali, uffici, luoghi di lavoro, scuole, bus, metropolitane, treni, cinema, teatri, discoteche. In ognuno di questi settori le autorità di governo nazionali e regionali avrebbero dovuto prendere provvedimenti per evitare la seconda ondata e per contrastare il contagio. Lo hanno fatto? Poco, molto poco. (Solo molti dipendenti pubblici hanno continuato a non lavorare, ma questo è un altro discorso). Hanno almeno informato gli italiani sui rischi che correvano? Quasi per niente. Gli spot dei mesi di marzo e aprile che ricordavano a tutti le modalità di contagio e come proteggersi non ci sono più stati. Forse per non disturbare il sollievo dei nostri cari concittadini che volevano godersi in pace lo scampato pericolo? Non si sa. Sta di fatto che invece degli spot utili siamo stati invasi da una miriade di messaggi fuorvianti e di bufale con autorevoli sponsor. Ci ricordiamo del Salvini che organizzava manifestazioni e scendeva tra la folla senza mascherina? Pensiamo che il suo esempio rivendicato con orgoglio e baldanza non abbia fatto scuola? Errore: è stato uno degli elementi principali del “liberi tutti”. La gente ha pensato: se uno così importante fa così vuol dire che veramente è tutto passato.

La Meloni, più furba, ha sempre fatto vedere che indossava la mascherina, ma la sostanza dei suoi messaggi non era molto diversa da quelli di Salvini. Poi mettiamoci i professori citati, mettiamoci gente di avanspettacolo (se va oltre la critica d’arte) come Sgarbi, mettiamoci la Santachè che rivendicava il diritto di ballare senza limiti. Insomma mettiamoci quell’imponente movimento di opinione che ha preso il sopravvento per mesi. Cosa dovevano fare gli italiani lasciati senza una guida politica? In quei mesi chi indossava la mascherina era visto come un menagramo o uno sfigato. Ce lo ricordiamo?

I governi nazionale e regionali non sono stati da meno. Presi dall’euforia per il miglioramento della situazione si sono messi, metaforicamente, a ballare pure loro. Gli interventi più scomodi sono stati sistematicamente evitati o rinviati. Fino ad oggi le autorità sono intervenute non per prevenire guai peggiori, ma per tentare di riparare a quelli già fatti da tempo. Perché la medicina territoriale è tuttora incapace di essere la prima linea di selezione e trattamento dei positivi con pochi sintomi? Perché i pronto soccorso sono ancora inadeguati? Perché i posti in terapia intensiva sono cresciuti così poco? Perché bus e metropolitane sono come erano all’inizio dell’anno? Sono solo alcuni dei tanti interrogativi sospesi.

Prendiamo quel 49% che approva il trattamento differenziato tra le regioni. Perché così pochi? Ma perché la prima linea di resistenza delle regioni per settimane è stata quella di rinviare le decisioni, poi di attribuirle al governo, poi di protestare in nome della parità di trattamento. Gli italiani e le loro istituzioni sono malati di localismo. In realtà la logica dice che le regole differenziate andrebbero applicate all’interno di ogni regione. Le grandi città dove i contagi corrono dovrebbero essere tutte chiuse. I piccoli centri, le frazioni nelle campagne o anche le fabbriche dove è più facile assicurare un lavoro protetto, no. Perché non si fa? Perché subito si alzerebbero le proteste: “bisogna trattare tutti allo stesso modo!”.

In Italia funziona così

Claudio Lombardi

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