Il femminicidio di Giulia Tramontano

Da valigia blu un articolo di Giulia Blasi (www.valigiablu.it)

Il primo giugno 2023 è stato ritrovato il corpo di Giulia Tramontano, il cui omicidio è stato confessato dal fidanzato Alessandro Impagnatiello. Tramontano è la ventiduesima donna che muore per mano del partner solo quest’anno, mentre sono 37 – al momento della stesura di questo articolo – le donne uccise in ambito affettivo e relazionale.

L’11 maggio 2023 gli europarlamentari di Lega e Fratelli d’Italia si sono astenuti al voto per la ratifica della Convenzione di Istanbul, un accordo internazionale per la prevenzione e il contrasto della violenza contro le donne, con Alessandra Basso e Susanna Ceccardi (Lega) che hanno votato direttamente contro. Il primo paese a uscire dalla convenzione è stato proprio la Turchia, nel 2021, definendola “una minaccia per i valori della famiglia” che “normalizza l’omosessualità”. Fra le ragioni citate dai rappresentanti delle destre all’Europarlamento per la loro astensione spicca il rifiuto della cosiddetta “ideologia gender”.

Le reazioni alle notizie dei femminicidi non sono sempre uguali. Ci sono femminicidi accolti dall’opinione pubblica con poco più che un sospiro rassegnato: si parla di separazioni che avrebbero minato l’autostima del femminicida, che non si rassegnava, non accettava la fine del rapporto, e comunque era depresso, aveva problemi di soldi o sul lavoro. Oppure la violenza arriva a chiudere nel sangue un rapporto conflittuale fra persone per cui la convivenza era da tempo un inferno. In entrambi i casi il sottinteso è chiaro: la responsabilità della morte non è di chi uccide, ma di chi è stata uccisa, che avrebbe causato la sua stessa morte separandosi o dichiarando l’intenzione di separarsi, oppure non separandosi e quindi rimanendo in casa con la persona che le avrebbe tolto la vita. Normale amministrazione, purtroppo, inevitabile come un fenomeno atmosferico: le donne devono imparare a proteggersi.

La morte di Giulia Tramontano è uno di quei casi che fanno invece molto rumore. C’è la dinamica del fatto, il femminicidio a cui ha fatto seguito l’occultamento del cadavere (con tanto di messaggi inviati dal cellulare di Tramontano per simularne l’esistenza in vita)  scaturito dalla volontà di avviare una nuova relazione con l’amante, levando di mezzo l’ostacolo che glielo impediva. Un ostacolo percepito come molto ingombrante, dato che Tramontano era incinta al settimo mese del figlio di Impagnatiello. È la gravidanza, sopra ogni cosa, a rendere questa morte più grave agli occhi dell’opinione pubblica, soprattutto per il suo avanzamento: se per la legge quello che è morto insieme alla madre era solo un feto, per il mondo era già un bambino in procinto di nascere. Il probabile capo d’accusa a carico di Impagnatiello – interruzione di gravidanza non consensuale – arriva a livello emotivo come la morte di due persone. Questo il quadro emerso finora dalle indagini e dalla confessione dello stesso Impagniatiello.

Non c’è molto di nuovo, purtroppo. La memoria torna immediatamente al caso della diciannovenne Jennifer Zacconi, che nel 2006 fu tramortita e sepolta viva dall’uomo di cui era l’amante quando era già entrata nel nono mese di gravidanza. È così tutto già visto che nel tempo intercorso fra la notizia della scomparsa di Giulia Tramontano e la confessione di Alessandro Impagnatiello l’opinione pubblica – soprattutto quella femminile – aveva già cominciato a ipotizzare correttamente che non ci fosse stato nessun allontanamento volontario. L’arresto di Impagnatiello ha fatto esplodere sui social l’hashtag #losapevamotutte, perché sì: lo sapevamo.

A questo j’accuse collettivo ha fatto seguito il solito proliferare di articoli e opinioni (più o meno autorevoli, più o meno argomentate) sulla solita linea: dobbiamo insegnare alle donne a difendersi. Sembra più facile, tutto sommato, che insegnare agli uomini a non uccidere, picchiare, stuprare, umiliare le donne, no? Ed è qui che torna in gioco la Convenzione di Istanbul, che nel parlare apertamente di prevenzione riconosce la natura sistemica di una violenza che ci si ostina a trattare come episodica, ogni uomo per sé, ogni uomo un mostro; e dall’altro, che si tende ad attribuire alla scarsa capacità delle donne di proteggersi, perché in fondo sì, ogni uomo può essere quel mostro.

Entrambi gli approcci sono sbagliati. La violenza non è episodica, gli uomini che la agiscono non sono mostri, non sono pazzi, non sono colti da “raptus” o poco lucidi: le azioni che compiono sono razionali, sequenziali, conseguenti, caratterizzate da un’evidente logica di manipolazione e tentativo di farla franca. Cadaveri sepolti in luoghi poco frequentati, telefonini sottratti e utilizzati per mandare messaggi a famiglia e amici della vittima, la cui scomparsa viene segnalata con simulata ansia proprio dalla persona che ne è responsabile. Chi si dimentica Salvatore Parolisi che si fingeva affranto davanti alle telecamere? O di Davide Fontana, che rischia l’ergastolo per aver ucciso, fatto a pezzi, nascosto in un congelatore e successivamente gettato in un dirupo la vicina di casa, Carol Maltesi, di cui si era invaghito?

L’errore più grande che possiamo fare quando parliamo di violenza maschile contro le donne è quello di considerarla un fenomeno indesiderato, qualcosa che la nostra società ha sempre combattuto e che considera una ricaduta negativa dell’assetto patriarcale, qualcosa che va corretto ed eliminato. Fino al 1956 era in vigore il cosiddetto ius corrigendi, vale a dire il diritto di un uomo di picchiare moglie e figli per correggerne il comportamento. Il motivo per cui le destre si oppongono a una convenzione che agisca in senso preventivo, e non solo punitivo, sulla violenza maschile contro le donne (e più in generale, sulla violenza come elemento base nella costruzione della maschilità) è che quella violenza è considerata un metodo di controllo sociale.

Non c’è un modo più chiaro per dirlo: le donne devono crescere nella paura. Solo così è possibile mantenere l’ordine sociale di cui parla il presidente turco Erdoğan, i “valori della famiglia” che devono rimanere intatti, ognuno al suo posto, le donne a custodia della casa e della moralità, gli uomini proiettati verso l’esterno, l’azione, il guadagno. Le donne rinchiuse nel recinto della tradizione, protette dagli “uomini buoni” che si ergono a guardiani contro gli “uomini cattivi”. La violenza come mezzo di risoluzione dei conflitti fino dall’infanzia, perché “sono ragazzi”. La disumanizzazione delle donne, ridotte a pezzi di macelleria da commentare, prendere, utilizzare, da cui pretendere servizi e abnegazione, oggetti di possesso e non persone, punti di scarico di una costruzione della maschilità che passa per la battuta volgare, il sessismo casuale da spogliatoio, il cameratismo che esclude e oggettifica.

L’hanno fatto tutti. Tutti. Non esiste al mondo un uomo che prima o poi non abbia compiuto almeno un’azione, pronunciato una frase denigratoria, agito una forma di sopraffazione anche minuscola, impercettibile, normalizzata. Anche il solo pensare alle donne come qualcosa che esiste nello spazio per essere prelevato come da uno scaffale, a disposizione dell’uomo che sceglie. È tutto parte dell’educazione maschile, compreso il vittimismo di chi pensa che ogni femminicida sia un insulto agli uomini “buoni” e di chi di violenza non vuole sentire parlare perché non ha mai fatto niente, lui. E niente di tutto questo è casuale, niente è frutto di un errore. Le donne devono avere paura, devono temere per la loro incolumità ogni minuto. Devono evitare lo spazio pubblico, soprattutto da sole: devono essere sempre accompagnate, perché “là fuori” è pieno di malintenzionati, soprattutto di notte. E anche a casa devono guardarsi le spalle, fare attenzione, proteggersi.

È uno stato di allerta costante di cui le donne neanche si rendono conto. Lo sappiamo e basta. Ed è, bisogna ripeterlo, una scelta collettiva della società per tenerle al loro posto, docili, sfruttabili. È per questo, solo per questo che le destre si oppongono a qualsiasi intervento che metta in discussione i ruoli e le identità di genere. Il patriarcato ha bisogno di questo terrore, ha bisogno di tenerci sotto la minaccia di una ritorsione che potrebbe arrivare da un momento all’altro. Il femminicidio di Giulia Tramontano ha scatenato un’ondata di rabbia che bisogna tenere viva, non lasciare che si spenga o che venga scavalcata da altre emozioni. Abbiamo diritto a questa rabbia, abbiamo diritto a vivere non protette, solo libere.

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