Il prezzo del galleggiamento (di Andrea Boitani)
La manovra sull’Imu si può sintetizzare in meno tasse sul patrimonio e più sull’abitare, meno certezze sulle entrate dei comuni e più tempo per il Governo. Aumentano anche le distorsioni e l’iniquità fiscale. Non è di questo che ha bisogno l’Italia.
SENZA PIÙ IMU
Il diavolo sta nei dettagli – ancora non del tutto chiariti – ma i provvedimenti fiscali varati dal governo nel Consiglio dei Ministri del 28 agosto non sembrano molto promettenti (tacciamo degli altri). In sintesi: meno tasse sul patrimonio; più tasse sull’abitare; meno certezze sulle entrate dei comuni; qualche incerto taglio di spese per coprire il mancato incasso della prima rata Imu; rinvio per le coperture della seconda rata; più tempo per il governo (i dettagli nell’articolo di Bordignon). Ignorate le raccomandazioni di Ocse, Bce (e buon senso economico) per una riduzione del cuneo fiscale sul lavoro al fine di riguadagnare competitività di prezzo sui mercati internazionali. Non un grande risultato per l’Italia, ma un discreto risultato per il Pdl. Forse anche per il presidente Letta che, di rinvio in rinvio, compra tempo di galleggiamento per il suo esecutivo almeno fino all’approvazione della legge di stabilità, che dovrà far quadrare i conti di tante e disparate misure di spesa e di minori entrate e garantire la cancellazione della seconda rata dell’Imu.
ABITARE DI SERIE A E DI SERIE B
La faccenda dell’Imu è, sotto molti profili, paradigmatica. Si tratta di una imposta patrimoniale che, in una forma o nell’altra, più o meno tutti i paesi civili hanno. In quanto imposta patrimoniale, sarebbe raccomandabile che avesse una aliquota unica (non troppo alta) proporzionale al valore del patrimonio (quindi indipendente dal fatto che le case di proprietà siano una, due o dieci). Il fatto che si prevedessero (e in molti paesi si prevedano) sconti anche forti per le “prime abitazioni” è riconducibile alla meritorietà riconosciuta all’avere almeno un tetto sotto cui ripararsi nel luogo in cui si vive. Merito che – per il principio di equità e parità di trattamento fiscale – andrebbe riconosciuto anche alle famiglie che vivono in affitto, prevedendo una parziale detraibilità (o deducibilità) fiscale dei canoni di locazione (per chi li paga, naturalmente). Abolire del tutto l’imposta sulla prima casa – senza introdurre alcuna detrazione o deduzione per gli affittuari è un ulteriore aggravamento dell’iniquità fiscale a favore del patrimonio e contro il reddito.
È legittimo attendersi che la nuova service tax finirà per compensare i comuni per le mancate entrate dovute all’abolizione dell’Imu sulla prima casa; inoltre si dovrebbe affiancare alla tassa sui rifiuti e dovrebbe essere commisurata alla superficie delle abitazioni, mentre certamente graverà anche sugli inquilini. Se ne deduce un’elevata probabilità che il combinato disposto di queste manovre si traduca in un aumento della distorsione e dell’iniquità del prelievo fiscale sull’abitare a partire dal prossimo anno.
I COMUNI NELLA CORRENTE DELL’INCERTEZZA
Intanto, i comuni continuano a vivere nell’incertezza sulle loro entrate (come verrà compensato il mancato introito dall’Imu sulle prime case?). Il Governo copre con 2,5 miliardi il mancato incasso della prima rata Imu e concede una proroga al 30 novembre per la presentazione dei bilanci di previsione 2013, riconoscendo implicitamente di aver creato molti problemi alle amministrazioni comunali con i suoi rinvii. Ma il Governo stesso non sembra avvedersi di due altri problemi: uno di decenza e uno di credibilità. È certamente indecente che il bilancio di previsione di un ente locale possa (e nei fatti debba) essere presentato a un mese dalla chiusura dell’esercizio a causa delle indecisioni del Governo nazionale. Inoltre, il patto di stabilità interno – da cui pure dipende in buona misura la capacità di rispettare gli impegni europei sul deficit – perde molta credibilità. Cosa si potrà dire ai comuni che presenteranno a fine novembre bilanci di previsione che sfondano i limiti del patto, avendo avuto certezze sulle entrate solo nel tardo autunno (se le avranno avute davvero)? E cosa si potrà fare se sfondamenti si verificheranno a consuntivo, visto che i comuni avranno avuto un solo mese per attuare manovre correttive? Non si danno così buoni argomenti alle amministrazioni locali che vogliono scrollarsi di dosso il patto di stabilità?
Anche i rinvii, lo si voglia o meno, hanno un prezzo. Ma un prezzo ce lo ha pure la distorsione e l’iniquità fiscale (esodati, precari della PA, provvidenze a pioggia per mutui e affitti, ecc.), i tagli di spesa quasi-lineari e il richiamo in servizio del discutibile principio dei “saldi invariati”. Sono questi prezzi compensati dall’accelerazione dei pagamenti dei debiti della PA nei confronti delle imprese (unica misura che promette di avere un impatto macroeconomico di qualche rilievo)?
Forse sarebbe il caso di pesare costi e benefici del galleggiamento per l’Italia (non per i singoli partiti o uomini politici) e vedere da che parte pende la bilancia. E poi decidere in base a questo se valga la pena o meno di mettere fine subito a un’alleanza governativa nata sotto una cattiva stella. Forse un sogno razionalista di fine estate…
Andrea Boitani da www.lavoce.info
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