Il vero baratro: un’Italia modello Ligresti (di Claudio Lombardi)
Ormai qualunque scelta si debba compiere occorre tener presente ciò che si fa in Europa. È inevitabile visto che abbiamo la stessa moneta o, quantomeno, un’interconnessione economica che è molto più di un mercato comune. Gli esempi e i paragoni fioriscono e vengono assunti, a volte, persino come punti di riferimento verso cui tendere. Fra questi la Germania occupa un posto di primo piano tanto appare “perfetto” l’equilibrio che lì hanno raggiunto e che riesce a tenere insieme forza dell’economia, successi nelle esportazioni, equilibri di bilancio dello Stato e garanzie sociali. Un mix che ne fa un paese particolare dove le tensioni se ci sono non appaiono mai minacciose perché prevale sempre la prevenzione dei conflitti e la ricerca dell’accordo sulla base di una ragionevolezza di fondo. E così la stabilità della Germania si traduce in risultati evidenti per tutti i tedeschi e non solo in termini di dati economici, bensì in termini, molto più difficili da raggiungere, di qualità della vita.
Scrive Curzio Maltese su Repubblica: “Nel volgere di poche settimane siamo passati dal considerare la Germania origine di tutti i mali d’Europa all’idea di copiare in blocco il modello tedesco per la riforma del lavoro e in genere come via d’uscita dalla crisi.”
Il motivo è semplice: “la Germania vanta una mobilità sociale e un sistema di ammortizzatori, a cominciare dal sussidio di disoccupazione, che qui non esistono.” E i risultati si vedono: “Il 2011 è stato un anno magico per l’automobile tedesca, con record di volumi d’affari per Volkswagen, Bmw, Audi, boom di vendite nei mercati emergenti, bonus distribuiti agli operai e decine di migliaia di nuove assunzioni.” E a cosa sono dovuti questi risultati? “La verità è che l’industria tedesca produce belle auto, molto tecnologiche e che ora consumano meno. Quello che faceva l’industria italiana fino agli anni Settanta. Hanno insomma investito per vent’anni sul prodotto.” Cioè quello che in Italia sembra proprio non si riesca a fare e così ci si riduce ad accapigliarsi su un pezzo dell’art. 18 o a scontrarsi per 10 minuti in meno di pause alle linee di montaggio Fiat. Come se da queste piccolezze dipendesse lo sviluppo economico dell’Italia.
Se messi a confronto i due sistemi, italiano e tedesco, segnano molte differenze, ma una sovrasta tutte. Si tratta di quello che potrebbe essere definito il “software” che guida i comportamenti di chi riveste cariche pubbliche e dei privati cittadini: l’etica. Il successo tedesco non sarà, allora, dovuto soprattutto ad una felice armonia fra etica pubblica ed etica individuale? Sembra proprio di sì e questo ci deve preoccupare molto perché i famosi numeri dei vari spread che ci distanziano dalla Germania dipendono da qualcos’altro e non sono frutto di chissà quale magia.
Da dove possiamo partire? Dai dati forniti dalla Corte dei Conti che ha valutato in 70 miliardi di euro il danno provocato dalla corruzione ai conti pubblici? O da quello dell’evasione fiscale che toglie risorse per oltre 100 miliardi allo Stato? Oppure dagli sprechi immani e dalle ruberie che contrassegnano una spesa pubblica tanto ingente quanto inefficiente?
Da qualunque parte la si giri emerge una caratteristica costante: chiunque in Italia si sente legittimato a ritagliare per sé un reddito più elevato di quello che gli spetterebbe in base al proprio lavoro e ai propri meriti e si sente libero appropriarsene a danno di altri sia che si tratti di entità pubbliche che di soggetti privati sapendo che l’impunità può essere garantita dall’intreccio di relazioni che avviluppa tutti coloro che hanno qualcosa da scambiare (potere, denaro, visibilità, fama) grazie alla posizione che occupano.
Ciò che rivelano, di tanto in tanto, le inchieste della Magistratura è solo una parte della verità ed è indicativo che la politica ne sia sempre parte in un modo o nell’altro. Ed è altresì molto significativo che mai uno scandalo sia provocato da chi fa della politica la propria professione. Una volta che lo scandalo scoppia e che entra in azione la Magistratura allora i politici parlano anche (ma non sempre) per prendere le distanze da ciò che si è rivelato, ma mai che i politici prendano loro l’iniziativa di smascherare e denunciare abusi, prepotenze e reati. Per non parlare di quando, troppo spesso, si grida al complotto di cui farebbero parte i magistrati che si muovono per perseguire i reati.
Che tutto ciò sia un chiarissimo esempio per i cittadini è semplicemente ovvio. Così pochi hanno da obiettare quando ci si trova ad avallare evasioni fiscali o a subire estorsioni per portare a buon fine pratiche che dipendono da uffici pubblici. Ovviamente gli stessi cittadini troveranno strano che li si richiami al rispetto scrupoloso dei propri doveri sui luoghi di lavoro o negli spazi pubblici magari dagli stessi che gestiscono il proprio potere a loro esclusivo vantaggio.
Il problema principale dell’Italia è questo. Ed è un problema che rende vani tanti sforzi di risanamento che vengono intrapresi a suon di tasse e di tagli di spesa.
Ma il problema non si limita alla politica o agli apparati pubblici o a una parte dei cittadini. Esempi “illustri” ci dicono che i metodi dell’abuso di potere e del ladrocinio organizzato sono stati fatti propri da tanti che si sono piazzati nei centri vitali del capitalismo italiano.
Di costo del lavoro tutti sanno parlare, ma di costo del banditismo economico chi ne parla?
Prendiamo il caso dei Ligresti clan imprenditoriale insediato a Milano da ormai un ventennio. Scrive Alberto Statera: “Passati vent’anni, il grande establishment finanziario e politico del paese, complice in buona parte e in ogni momento, scopre – ohibò – antichi e ben noti profili talvolta definiti nei processi “delinquenziali”. Ma qualche cenno sul clan vale la pena di rinfrescarlo per quei banchieri, quei politici e quelle autorità di controllo che per un ventennio non solo hanno rivolto lo sguardo dall’altra parte, ma sono stati complici ben ripagati di una che si rivelerà probabilmente tra le più grandi spoliazioni di un capitalismo notoriamente ben versato nella pubblicizzazione delle perdite e nella privatizzazione dei profitti o, per dirla in modo meno diplomatico, nel sistematico ladrocinio.”
Ladrocinio significa che hanno sistematicamente utilizzato la società di cui avevano assunto il controllo (attenzione: il controllo non la proprietà totale), Fondiaria-Sai, come un bancomat spolpandola e portandola al collasso.
Ecco un esempio, non isolato, di cosa hanno saputo fare le classi dirigenti e i cosiddetti capitalisti italiani. E ci vogliamo meravigliare se qualche tesoriere di partito inondato di soldi dallo Stato ne approfitta per rubare?
Qualcuno dovrà, prima o poi, accendere i riflettori sulla distruzione di risorse che un capitalismo fatto di predoni capaci solo di arraffare il valore creato da aziende un tempo sane ha fatto all’Italia. Sempre si tratta di persone colluse con la politica e, spesso, anche con le autorità di controllo che avrebbero dovuto vigilare. La colla di questo intreccio è nel malaffare e nell’abuso di potere finalizzato all’arricchimento privato senza produzione di valore perché l’effetto è stato di sabotare il mercato e di mortificare le capacità creatrici di tanti che si sono visti la strada sbarrata. Mettiamo nel conto anche il legame con le mafie che ormai sono diventate una forza capace di influire sull’economia e sulla politica e il quadro è completo.
Il declino dell’Italia sta qui e non nell’art. 18 indicato con perfetta malafede da politici e da membri del governo come causa dei problemi dell’economia italiana.
Affrontare questo problema non è cosa che può partire dai partiti come sono oggi né può bastare la Magistratura. Bisogna che se ne facciano carico gli italiani che stanno prendendo coscienza che il vero baratro in cui stiamo precipitando è questo.
Dare spazio a loro è un dovere e una necessità.
Claudio Lombardi
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