Insegnare l’inglese o il dialetto?
A Londra c’è un governo conservatore che dal 2012 sta investendo fondi pubblici per far si che fin dalle elementari i bambini imparino a creare programmi per computer. In Lombardia c’è un governo conservatore che vuol portare il dialetto nelle scuole. La vicenda si presta a diverse chiavi di lettura: qualcuno dirà che essere conservatore a Londra è diverso che esserlo a Milano, altri enfatizzeranno la distanza tra l’Italia e l’Europa.
Bisogna anzitutto premettere che il tema delle lingue locali in questi ultimi anni ha acquisito importanza non solo in Italia, ma un po’ in tutta Europa. Lo Stato nazionale appare incapace di rispondere ai problemi e acquisisce credito l’idea di un ripiegamento localistico. Certo le identità locali sono importanti, ma pensare che Catalogna, Lombardia, Scozia e Fiandre possano riuscire in ciò in cui hanno fallito Spagna, Italia, Regno Unito e Belgio è profondamente sbagliato. Analogamente oggi portare i dialetti a scuola è una scelta assolutamente antistorica.
La scuola certo ha il compito di costruire un’identità, che non è detto sia solo nazionale, ma ha anche due funzioni fondamentali per la sfera sociale ed economica di un paese: costruire la classe dirigente di domani e garantire la mobilità sociale.
La scuola raggiunge questi obiettivi quando dà ai giovani provenienti da tutte le classi sociali competenze spendibili nel mercato del lavoro.
E’ necessario che il nostro sistema scolastico dia più attenzione alle competenze tecniche e scientifiche. Non ha certo senso abolire il liceo classico oppure fare percorsi di studio universitari iper professionalizzanti ma privi di basi metodologiche, è invece necessario potenziare lo studio delle discipline matematiche e scientifiche. In Italia ci sono molti curriculum del liceo scientifico con un numero di ore definite quando la cellula occupava due pagine sui libri di scuola; ora ne occupa diverse centinaia. Sarebbe bello avere un indirizzo scientifico in cui non si studi, se va bene, un po’ di analisi matematica, ma anche fisica, statistica e magari programmazione. Una scelta sicuramente incompatibile con il dialetto in classe anche solo per banali limiti di tempo.
Negli ultimi anni abbiamo assistito ad almeno due rivoluzioni industriali: quella del personal computer e quella dei colossi di internet; arriverà presto una terza rivoluzione, quella dei machine to machine. Una scuola con più attenzione alle scienze ed all’innovazione può contribuire alla crescita del paese molto più di un continuo taglio e cucito sulla normativa fiscale e del lavoro.
Altro gap da colmare riguarda la conoscenza delle lingue. Sarebbe utile potenziare lo studio della lingua inglese magari con l’ausilio di insegnanti madre lingua alle scuole superiori e sarebbe ancor più utile fare maggior ricorso ai soggiorni all’estero di durata almeno semestrale sia alle superiori che all’università. Durante il mio Erasmus, dieci anni fa, scoprii che in piccoli paesi come l’Olanda, la Norvegia e la Svezia molte università impartivano i loro corsi quasi esclusivamente in inglese. La motivazione che sta alla base di tale approccio è che paesi con mercati del lavoro molto ristretti non possono fare altro, per rispondere a shock del mercato del lavoro, che dare ai loro giovani, grazie alle competenze linguistiche, la possibilità di competere per posti di lavoro anche all’estero. Analoghe riflessioni dovrebbero essere fatte in un paese come l’Italia con un’elevatissima disoccupazione giovanile: io ho il profondo timore che impartire solo corsi universitari in inglese possa portare ad un criterio errato di selezione della classe dirigente, sono a favore dell’università in lingua italiana, ma con opportuno presidio delle competenze linguistiche. Oggi dare competenze linguistiche adeguate a tutti i giovani italiani sarebbe una scelta di equità e pari opportunità. Per i giovani di un’università di provincia un’esperienza all’estero può aiutare anche quando si vuol poi tornare a vivere in Italia ed è meglio non fiondarsi all’estero senza prima aver acquisito discrete competenze linguistiche. Anche una maggiore attenzione alle lingue straniere appare poco compatibile con lo studio del dialetto.
Infine i programmi dell’OCSE per la valutazione delle competenze di studenti (PISA) e degli adulti (PIAAC) evidenziano che il nostro sistema scolastico e universitario è tra quelli che più produce disuguaglianze invece che ridurle (come per esempio riesce a fare il sistema giapponese), temo che una scuola che punti sul dialetto e non su competenze che possono essere spese sul mercato vada a tutto vantaggio di chi può permettersi di frequentare corsi di lingua, di informatica e percorsi professionalizzanti privati.
La scuola italiana non può quindi puntare sul dialetto. Certo può dar fastidio che il dialetto sia sparito in città di migranti italiani e stranieri come Milano, si fa presto a dire che è colpa dell’Europa o di questa globalizzazione, ma le grandi città mitteleuropee come Milano, Sarajevo, Praga e Vienna erano già un melting pot tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento e chi ha avuto l’occasione di conoscere molte di queste città può affermare che hanno un’anima ed una storia anche se si fa fatica a trovare chi parla il dialetto.
La scuola italiana punti sul capitale umano, allinearsi ai livelli europei sulle lingue e rilanciare la cultura scientifica è la migliore politica industriale per il nostro paese. Insegnare l’inglese e la matematica possono riportarci ad un sentiero di crescita molto più facilmente di qualsiasi altra riforma
Salvatore Sinagra
stia sereno Stefano. Io nato negli anni ottanta le posso dire che i giovani cresciuti nel precariato sono già andati molto più lontano dei loro genitori. C’è un pezzo d’Italia che vince nel mondo. Io ho espresso una prospettiva che lei derubrica a luoghi comuni nata da esperienze diverse dall’erasmus a collaborazioni con miei coetanei europei passando per il mondo del lavoro. I giovani devono avere formazione e opportunità, il paternalismo non serve a nulla
Il “dialetto” è inutile solo nell’ottica di contrapporlo alla modernità. Se invece lo si vede sia come veicolo della modernità sia come punto di partenza di un multilinguismo in senso moderno ed europeo diventa una marcia in più per imparare altre lingue e per formare personalità equilibrate. Il dialetto può essere poi aggiunto alle ore scolastiche già esistenti (visto che rispetto ad altri paesi l’Italia non è certo prima per ore passate dagli studenti a scuola) e inoltre si possono insegnare altre materie come storia, geografia, matematica etc in “dialetto”. Così come sono d’accordo che una parte delle materie vengano insegnate in inglese. Solo introducendo un vero multilinguismo in cui le ore scolastiche vengano divise equamente tra l’uso veicolare delle tre lingue base (“dialetto”, italiano e inglese) si potranno dare radici e ali ai nostri ragazzi per andare più lontano di noi.
Caro Stefano, ha presente il fatto che il numero di ore settimanali a scola è limitato? Comunque io ho studiato in cinque realtà post scuola superiore e ho tirato le mie conclusioni. Quello che per lei è luogo comune per me è esperienza. Se analizza l’andamento del dow jones e del NASDAQ e li paragona a quelli dell’indice italiano noterà che mentre i primi sono cresciuti del 75% negli ultimi 15 anni quello italiano si è contratto del 75%, la differenza si spiega solo con l’emergere di imprese innovative, figlio anche di scelte del comparto dell’istruzione
Il solito articolo pieno di luoghi comuni contro la diversità linguistica. Chi l’ha detto che l’apprendimento del “dialetto” come viene chiamato (in realtà lingua regionale) debba ostacolare quello dell’inglese o che non si possa conciliare una maggior preparazione scientifica con l’uso della lingua minoritaria. Inoltre dopo che il lombardo verrà appreso dagli alunni cosa impedisce di insegnare alcune materie magari innovative come l’informatica in piemontese come trampolino di lancio per l’uso dell’inglese? Dunque “dialetto” o inglese? Entrambi! Invece di usare questi beceri clichè perchè non vi informate sulle realtà dove il multilinguismo è una spinta propulsiva e non un ancora (Catalogna, Galles, Paesi Baschi, Quebec..)? Scoprirete che tutti i modelli vincenti di multilinguismo scolastico partono dalla realtà linguistica del territorio. Un multilinguismo che non parta da queste premesse è un multilinguismo monco.