Israele e palestinesi oltre l’ideologia

Il piano di Trump per il Medio Oriente segna soltanto un ulteriore consolidamento della posizione di Israele nella regione e non propone nessuna vera soluzione per i palestinesi. Cattiveria o inevitabile fotografia della realtà dei fatti? Sicuramente anche in questo piano c’è una componente prevalente di spartizione del territorio tra l’entità più forte – lo stato israeliano – e qualcosa di indefinito che dovrebbe far capo ad un’entità statale palestinese. È evidente che non è per niente facile porre termine ad uno stato di belligeranza che dura da 70 anni. Dovrebbe essere anche evidente però che il risultato non dipende soltanto da chi è più forte, ma anche da chi rivendica con rabbia e dolore un’autonomia e un territorio che in parte già possiede, ma che non riesce a gestire. Dal sito www.affarinternazionali.it citiamo le parti salienti di un’analisi a firma di Pietro Baldelli che affronta proprio il problema dei palestinesi.

“Sono sempre più evidenti l’inadeguatezza e le divisioni della leadership palestinese, incapace di fare fronte comune e di presentare una posizione unitaria da spendere nei negoziati con Israele. Da una parte Abu Mazen continua a guidare l’Autorità nazionale palestinese (Anp) privo di un’effettiva legittimazione popolare. Eletto nel 2005 come successore di Yasser Arafat, continua a governare nonostante il suo mandato si sia concluso nel 2009. (….)

Dall’altra parte Hamas, al potere a Gaza, si è dimostrato incapace di dismettere la lotta armata contro Israele, mantenendo la sua doppia natura di partito politico e movimento para-militare. (…) Hamas non ha ancora riconosciuto il diritto all’esistenza di Israele, ponendosi quindi al di fuori della posizione ufficiale palestinese espressa con gli Accordi di Oslo. (….)

Dietro la rinnovata aggressività di Hamas sembra ci sia un ritrovato feeling con l’Iran. (…) L’Iran ha interesse ad alleggerire la pressione israeliana nel sud siriano e potenzialmente potrebbe intravedere nei territori palestinesi un nuovo fronte della più ampia strategia della deterrenza asimmetrica, caposaldo della sua dottrina militare.

La difficoltà di arrivare a un compromesso è dettata dalla natura della sfida che Hamas porta all’Anp. Non un confronto di natura politica, come aveva fatto sino alle elezioni legislative del 2006 alla quali aveva partecipato. Bensì uno di livello superiore, una sfida sul piano istituzionale, mettendo in discussione la legittimità dell’intero impianto proto-statuale uscito dagli Accordi di Oslo. Il risultato paradossale è l’incapacità di creare uno Stato palestinese a fronte di una doppia entità statuale sedimentatasi tra Gaza e la Cisgiordania.

Tale frattura è la conseguenza di un altro fattore di debolezza del fronte palestinese: l’assenza di una società unitaria. Esistono infatti diverse società palestinesi. In Cisgiordania, per esempio, è radicata una corposa élite di commercianti, businessmen e intellettuali benestanti che non hanno alcun interesse a modificare lo status quo. A Gaza, invece, la popolazione è molto più povera, dipendente dal welfare state impiantato da Hamas e dagli aiuti umanitari. Poi ci sono i rifugiati palestinesi presenti negli Stati limitrofi (Libano, Giordania, Siria, Egitto), a loro volta divisi tra coloro che vivono ancora nei campi e quelli che hanno ottenuto la cittadinanza dello Stato ospitante, risultando parzialmente integrati. Infine, vi sono i palestinesi della diaspora, presenti soprattutto negli Usa e in Europa, e gli arabi israeliani che oggi rappresentano il 20 % della popolazione di Israele.

 

Tale frammentazione ha impedito ulteriormente la produzione di un adeguato livello di coesione statale di cui le società arabe, a differenza della tradizione turca o persiana, già tendenzialmente difettano. (….)

Le divisioni e le contraddizioni interne sono il primo nemico che i palestinesi stessi dovranno sconfiggere se vorranno portare a compimento il proprio progetto statuale”.

A questa analisi datata novembre 2018 c’è ben poco da aggiungere se non che il piano di Trump fa leva anche sull’incapacità dei palestinesi di superare le divisioni interne. Non si può però pensare al Medio Oriente senza considerare la molteplicità di attori presenti nella regione. Non ci sono solo israeliani e palestinesi. La posizione di Israele, nonostante la sua potenza militare e l’appoggio degli Usa, è pur sempre quella di uno stato di circa 8,5 milioni di abitanti circondato da ogni parte da stati con i quali nel corso dei decenni ha dovuto combattere guerre sanguinose. Tuttora l’Iran, la maggiore potenza di matrice islamica, pone in cima ai suoi obiettivi strategici la distruzione di Israele. Lo stesso fa Hamas che ritmicamente bersaglia le città israeliane da Gaza con razzi poco efficaci dal punto di vista militare, ma utilissimi a mantenere uno stato di belligeranza. Ci sono molti interrogativi ai quali dare risposta evitando di chiudersi in uno schema vittima-carnefice che finora è servito a ben poco. Riporre ogni fiducia negli accordi internazionali si è rivelato inutile. È primario interesse dei palestinesi superare la lotta tra fazioni e definirsi innanzitutto come entità politica coesa mettendo fine al sogno di sconfiggere Israele sul piano militare e abbracciando un capovolgimento radicale di fronte: dalla guerra alla costruzione della pace dichiarandolo per eliminare ogni equivoco e perseguendola con azioni concrete. La convivenza tra popolazioni è inevitabile e proficua perché 70 anni di conflitti hanno dimostrato che nessuno è in grado di schiacciare il suo avversario. L’unica alternativa rimasta è accettarne l’esistenza

Claudio Lombardi

3 commenti
  1. Gfransb dice:

    Che le divisioni palestinesi siano alla base del problema è banalmente ovvio. Ma che a Israele tutto ciò convenga è altrettanto ovvio. Quindi si resta con uno stallo in cui gli unici a guadagnarci sono quelli che un pezzo alla volta erodono i territori palestinesi. Com’è che ha detto un commentatore sopra, … non si può trattare con chi vuole la tua distruzione? Si riferiva a Israele presumo.

  2. Giovanni Terracina dice:

    Quantunque poco incline a considerare pesanti le responsabilità israeliane considero realista e condivisibile l’analisi di Sergio Mancioppi: assoluta incapacità dei palestinesi di ragionare in modo unitario e vincolati ad una visione TRIBALE delle problematiche che non aiutano a risolvere il problema e a proclamare unitariamente il diritto di Israele ad esistere. Il resto si potrà risolvere , non si può trattare con chi vuole la tua distruzione

  3. Sergio Mancioppi dice:

    Analisi severa e senza sconti per la propaganda palestinese, tanto cara a pezzi della sinistra e della cultura europea. Senza dilungarsi troppo sulle responsabilità israeliane, che sono comunque pesanti, viene messo in chiaro che alla base del prolungarsi della guerra c’è anche e soprattutto l’incapacità palestinese di parlare con voce unitaria e con una proposta realistica. Purtroppo è il resto del mondo arabo e iraniano ad avere la meglio: il problema palestinese come problema infinito usato per impedire la normalizzazione della regione e l’assestamento di un regime di pace tra Israele e il futuro stato palestinese. Ci sarebbe da aggiungere agli aspetti negativi attuali, la assoluta inutilità dell’ONU, paravento ipocrita di maggioranze anti-israeliane comprate con i petrodollari. Se i palestinesi vogliono la pace e un loro stato (come è loro diritto) comincino a praticare la pace, abbandonino i rapporti con Iran e altri stati finanziatori del terrorismo e comincino a mettersi d’accordo tra di loro.

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