Italia: troppe microimprese, poca produttività

Pubblichiamo un articolo di Mario Seminerio tratto da www.phastidio.net

Quest’anno, le Considerazioni finali del governatore della Banca d’Italia vertevano sulla ripresa post pandemica e sull’implementazione del piano nazionale di ripresa e resilienza. C’è soprattutto un passaggio che merita di essere evidenziato, relativo al tessuto produttivo nazionale. Sono cose ampiamente risapute ma ribadirle oggi, alla vigilia dell’avvio di un programma di ricostruzione del modello economico, il cui successo o fallimento segnerà il percorso della nostra comunità nazionale per gli anni a venire, serve a comprendere la portata delle opportunità, e dei rischi.

A pagina 10 delle Considerazioni si può leggere:

Anche se l’Italia può contare su un segmento in crescita di imprese dinamiche e innovative – cui si deve il recupero di competitività sui mercati internazionali nell’ultimo decennio e un contributo importante al ritorno in attivo, dopo 30 anni, della nostra posizione netta sull’estero – persistono gli elementi di fragilità del tessuto produttivo.

Il numero di microimprese con livelli di produttività modesti rimane estremamente elevato, mentre è ridotta la presenza di aziende medio-grandi, che pure hanno un’efficienza comparabile a quella delle maggiori economie a noi vicine. Nei servizi non finanziari le imprese con meno di 10 dipendenti impiegano quasi il 50 per cento degli addetti, il doppio che in Francia e Germania.

La specializzazione in attività tradizionali e la piccola dimensione riducono la domanda di lavoro qualificato, generando un circolo vizioso di bassi salari e modeste opportunità di impiego che scoraggiano gli stessi investimenti in istruzione. Nonostante i progressi stimolati anche dalle politiche economiche, la spesa privata in ricerca e sviluppo resta molto più bassa di quella di Francia e Germania, nonché della media dei paesi avanzati”.

Il paese dei terzisti arretrati

In questi paragrafi c’è tutta l’inadeguatezza di ampia parte dell’economia italiana al contesto esterno. Più volte, in passato, ho parlato di inidoneità italiana al proprio habitat economico, usando termini evoluzionistici. Non si può che ribadire quel concetto.

Una pletora di piccole aziende molto spesso terziste nell’accezione più “antica” del termine, ad alta intensità di lavoro e bassa crescita della produttività; imprenditori a bassa scolarizzazione, che spesso restano in attività attraversando il confine tra l’emerso e il sommerso.

Una altrettanto elevata incidenza di commercianti al dettaglio che sono semplici intermediari di una catena distributiva che ovunque nel mondo si è fortemente appiattita, e che hanno trovato protezione politica e giustificazione della propria esistenza nel raccordo col territorio di radicamento. Che tuttavia è tesi puramente difensiva e di retroguardia.

Fatale che questo contesto sia respingente dell’elevato investimento in capitale umano, che diventa quindi o una costosa ubbìa delle famiglie o una spesa finalizzata all’espatrio.

Ma quanto serve per cambiare le cose, non solo e non tanto in termini di denaro ma, soprattutto, di tempo? Moltissimo, ammesso di riuscirvi. Nessuno dovrebbe fingere di ignorare questo punto. Non si trasforma la struttura sociale ed economica di un paese nel breve volgere di un lustro o poco più.

Forse si può tentare di porre le basi per quella trasformazione, cercando di non sbagliare programmazione e sperando che la società segua nella comunanza di obiettivi. Del resto, il cambio di paradigma tecnologico, la fase che stiamo vivendo, rappresenta una opportunità per tentare il reset delle proprie inadeguatezze al contesto ambientale.

Il tempo non è alleato

Pensate solo al tempo necessario a cambiare i paradigmi del sistema educativo e formativo, al reperimento del capitale umano a ciò necessario. Ma non ci si deve ingannare credendo che il percorso sia privo di ostacoli. Anzi, gli ostacoli devono essere considerati la norma anziché l’eccezione.

Pensiamo alle resistenze politiche dei settori declinanti, volte a ottenere risorse fiscali per sopravvivere. Pensiamo alla moltiplicazione dei casi di inadeguatezza del capitale umano, la cui sopravvenuta obsolescenza diventa forte resistenza al cambiamento e domanda di protezione.

Davvero crediamo che sia possibile riconvertire magicamente, con l’abracadabra della parola formazione, milioni di persone di età non più verde e abituate a mansioni ripetitive che mai hanno richiesto di conferire valore aggiunto mediante interpretazione del contesto e valutazione del miglior corso d’azione?

Quale sarà la reazione a queste difficoltà? Una fortissima domanda di protezione, a più livelli. Aziende e settori finiti tenuti in vita a forza, protezione a oltranza dei posti di lavoro e non dei lavoratori, riflesso condizionato a cercare nel sistema previdenziale la valvola di sfogo per i soggetti non riconvertibili. Aumento verticale dell’inerzia di sistema e dei suoi “costi di imbalsamazione”. Su tutto, ribadiamolo alla nausea, una situazione demografica catastrofica. Avete mai visto una società di vecchi fare la rivoluzione?

La diagnosi è facile, la terapia difficile, la prognosi resta riservata. È facile dire che abbiamo enormi porzioni di tessuto produttivo la cui produttività è una finzione a uso interno, che l’investimento in ricerca e sviluppo tende a correlarsi alla dimensione aziendale, che l’unico modo per far progredire le retribuzioni è aumentare la produttività, nozione di cui molti ignorano il significato, credendo si tratti di sinonimo di cottimo e sfruttamento.

Recovery a doppio taglio

Ora abbiamo questo investimento epocale chiamato Recovery Fund. Molti hanno compreso che si tratta dello strumento con cui rinascere oppure dell’arma con cui suicidarsi. Molti altri credono si tratti dell’ennesima versione di uno stimolo di domanda, di quelli che preservano lo status quo. Credo e temo che i secondi siano più numerosi dei primi. La politica segue e consegue, con la sua ricerca ossessiva di scorciatoie e i suoi orizzonti temporali schiacciati e distorti, che di tali scorciatoie sono causa ed effetto.

Chi crede che questo paese possa sopravvivere e prosperare col turismo, che pure è parte rilevante della nostra economia che va sviluppata secondo criteri gestionali moderni e non predatori o di corto respiro, non ha compreso cosa guida il benessere di lungo termine di una comunità nazionale.

Come sempre, da un quindicennio a questa parte, mi auguro di sbagliare valutazione. Purtroppo, sinora questo auspicio non si è realizzato. L’Italia oggi è un dinosauro che tenta di diventare crisalide ma non è certa di volerlo; e che rischia di finire in un museo per turisti stranieri, coccolati da camerieri locali

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Fornisci il tuo contributo!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *