La Cina, l’Europa e il mondo che cambia
Venti anni fa, mentre dirigevo un progetto di cooperazione europea sulla rigenerazione del centro storico di Pechino, un esponente di quella Municipalità mi disse “il XX secolo è stato quello degli Usa, il XXI sarà quello della Cina”.
Già allora i segnali di uno sviluppo impetuoso erano davanti ai nostri occhi. Una crescita economica che cambiava di giorno in giorno la vita quotidiana dei cittadini. Solo per fare un esempio rimasi colpito quando, tornato a Pechino dopo soli sei mesi dalla precedente trasferta, le biciclette erano più che dimezzate e si erano moltiplicati i genitori che portavano i figli a scuola con la loro auto nuova.
L’obbiettivo che si erano prefissi di raggiungere in meno di venti anni, era far uscire dalla soglia della povertà circa mezzo miliardo di persone. Già allora i cinesi con un reddito annuo superiore al milione di euro erano sessanta milioni. Credo ci siano riusciti, basta confrontare i dati Onu sul reddito pro capite cinese con quelli dell’India, l’altra grande potenza asiatica, considerata la democrazia più numerosa del mondo, ma dove persistono sacche endemiche di miseria e le caste sono ancora un pilastro non solo sociale.
Agli inizi del secolo la Cina appariva come l’Italia del boom degli inizi anni ’60. Con in più l’informatica a fare da volano ad una popolazione giovane, dinamica e piena di voglia di affermarsi non solo individualmente.
Se si escludevano i massimi vertici dello Stato – Partito, l’età media dei dirigenti di istituzioni e imprese era sotto i 40 anni. Molte donne e tutti molto preparati, con grandi curricola nelle Università occidentali. Soprattutto aperti ad imparare gli aspetti che ritenevano positivi del nostro mondo, con una grande capacità di tradurli nella loro cultura della quale andavano fieri.
In un colloquio privato un alto dirigente mi disse che la Cina collaborava di buon grado con gli Usa e con la Germania, ma che avrebbe preferito cooperare di più con l’Italia, perché era stata la culla dell’unico grande impero, quello romano, che consideravano alla pari di quello cinese. Le citazioni di Marco Polo e soprattutto del gesuita scienziato Matteo Ricci, onorato di una casa museo al centro di Pechino dove è esposta una copia della prima Bibbia da lui tradotta in cinese, erano all’ordine del giorno.
Sostenevano che le due culture, pure assai differenti, avevano lasciato in entrambi i popoli un tratto comune sia nella ricerca della bellezza, per questo l’apprezzamento per il made in Italy, un vero culto per la sterminata classe media allora in formazione, ma soprattutto nel modo di condurre ogni trattativa, privo di atteggiamenti di superiorità neocoloniale. Una questione di tradizione culturale secolare prima ancora che una scelta di opportunità, dicevano.
In ogni genere di relazione i cinesi odiano essere messi con le spalle al muro e perdere la faccia. Il successo è una questione di equilibrio che consente a chi perde di conservare la propria dignità portando a casa comunque qualcosa dei suoi obiettivi. Sintesi confuciana “se ingaggi una lotta con la tigre lascia aperta la porta della stanza, può servire alla tigre o anche a te”.
“La guerra migliore è quella che eviti sia combattuta”, scriveva nel VI secolo A.C. il generale Sun Zu nel suo “L’arte della guerra”, studiato ancora oggi anche nelle accademie militari occidentali.
Questo prima dell’avvento al potere di Xi, quando un taxista ti poteva dire, ridendo, che la Cina aveva avuto due grandi fortune, quella di avere avuto a capo Mao Zedong e quella che il Grande Timoniere non aveva lasciato eredi. Poi la gelata.
Le aperture di Zu Enlai, di Deng Xiaoping e i rapporti amichevoli con Nixon e Clinton, oggi sono solo un ricordo nella galleria degli ospiti illustri del migliore ristorante d’anatra laccata sulla Quianmen.
Che orrore l’allontanamento del vecchio presidente Hu Jintao dal congresso del Pcc. Un segnale politico di cesura brutale col passato, ma anche un affronto alla tradizione di rispetto per gli anziani, assai sentita e costantemente praticata in Cina. Un atto politico di rottura plateale con le politiche di apertura seguite alla tragedia di Tianan men.
In poco più di venti anni la Cina ha rubato la scena economica mondiale agli Usa conquistando il Sudamerica, l’Africa e molti stati asiatici, oltre che essere penetrata solidamente in occidente, come in Germania, Austria, Norvegia, Svezia, Spagna e anche in Australia.
Nel frattempo la quota dell’Europa nell’economia globale segna il passo o diminuisce in alcuni settori chiave.
La stessa guerra di aggressione russa all’Ucraina, al di la delle mire di Putin, che non riuscendo a competere economicamente crede di recuperare terreno con la violenza, pone il problema della completa riorganizzazione dell’ordine mondiale uscito dalla seconda guerra mondiale. Un fatto epocale al quale l’Europa non era preparata.
Se l’Europa non saprà rispondere in modo forte e unitario saremo relegati in una marginalità economica che porterà con se non solo decrescita economica e maggiori disuguaglianze, ma un restringimento della democrazia come misura di contenimento degli inevitabili conflitti sociali e internazionali.
La cultura della destra è in sintonia con questa eventualità che definirei di difesa autoritaria. La risposta della radicalizzazione a sinistra è una manifestazione di infantilismo politico non solo fuori dalla storia, ma soprattutto inadeguato a fronteggiare i problemi della contemporaneità.
Inservibile ad opporsi efficacemente alla destra e a preparare la società a non subire gli aspetti negativi dell’inevitabile riassetto mondiale, ma a saperli gestire con apertura ed equilibrio per ricavarne il positivo possibile, contemporaneamente estendendo democrazia e diritti civili ed umani.
Per questo serve un’ Europa rinnovata. A questo avrebbe dovuto servire la trasformazione del Terzo Polo in Renew Italia nella grande famiglia continentale di Renew Europe.
Ma occorre partire conoscendo la verità sul mondo già cambiato, al quale il bipolarismo provinciale italiano, che destra e sinistra vogliono consolidare radicalizzandosi entrambe e ingessando la società, non da’ risposte.
Umberto Mosso
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