La colpa di essere ebrei
Pierluigi Battista su Il Foglio del 23 ottobre ripercorre alcuni temi e momenti dell’antisemitismo. Eccone alcuni estratti.
Il 9 ottobre del 1982 un bambino italiano di due anni, di nome Stefano Gaj Taché, viene ucciso da una granata e dalle sventagliate di mitra di un commando composto da una decina di terroristi mediorientali. Un bambino italiano ed ebreo. Un bambino ebreo alla fine di una cerimonia ebraica in un tempio ebraico. Non un aereo israeliano. Non un ufficio commerciale israeliano. Non un consolato israeliano. La saldatura tra odio per lo stato di Israele e odio per gli ebrei, tra antisionismo e antisemitismo, si mostrava in quel cruento frangente compiuta, assoluta, senza residui. E questo potevamo saperlo. Tutti avrebbero potuto saperlo, se solo avessero voluto vedere.
E invece: niente raccapriccio, niente vergogna. Sull’onda delle proteste per l’invasione israeliana del Libano furono colpiti in Europa, a Parigi, ad Anversa, a Vienna, a Roma, cimiteri ebraici, scuole ebraiche, luoghi di culto ebraici. Pochi giorni prima dell’assassinio del piccolo Stefano, sui muri di una piccola sinagoga di via Garfagnana, a Roma, un gruppo dell’estrema sinistra romana aveva affisso uno striscione con su scritto: “Bruceremo i covi sionisti”. Una sinagoga definita “covo sionista”.
Chissà perché la guerra più crudele di tutte è sempre quella di Israele. Sempre. Quando gli aerei e gli elicotteri militari della Siria del macellaio Assad e della Russia di Putin uccidevano un numero elevatissimo di civili a Ghouta Est, ad Aleppo, ad Homs, a Darà, quanti bambini saranno stati sepolti sotto le bombe e quante strutture sanitarie sono state devastate? Abbiamo detto qualcosa, le piazze si sono mosse, l’indignazione globale si è accesa? No, in questo caso la “guerra crudele” non era di Israele (e nemmeno amerikana).
Nemmeno una fiaccolata (soltanto i soliti Radicali) davanti all’ambasciata cinese quando a Pechino hanno proceduto e procedono allo “spostamento” coatto (insomma, la deportazione) di mezzo milione e l’uccisione di alcune migliaia di uiguri (vecchi e bambini), l’etnia turcofona di religione islamica della regione dello Xinjiang: e pensare che dei crudeli campi di concentramento, dove tra l’altro le donne sono costrette alla sterilizzazione per non perpetuare la razza maledetta, esiste persino la documentazione fotografica, ma niente. Le vittime sono islamiche, ma forse i carnefici hanno la stella di David nelle loro insegne?
A proposito, qualcuno sa che cosa è successo e succede nel Darfur con 400 mila morti accertati e due milioni e mezzo di profughi in fuga dai feroci “janjiawid” (“demoni a cavallo”). No. E comunque non c’è nemmeno in questo caso un’aula universitaria occupata in Italia, e ad Harvard (il luogo della fine dell’Occidente all’orizzonte) è proibito parlare di altre crudeltà che non siano quelle americane ed ebraiche.
Doppio movimento: enfatizzazione e minimizzazione. Trattamento speciale nei confronti dello stato di Israele, riflettori puntati su ogni nefandezza, un “discolpati” continuo e martellante. E questo è il primo movimento. Poi c’è il secondo, opposto al primo: la minimizzazione, il ridimensionamento, il silenzio omertoso, il far finta di niente quando lo schema vittima/carnefice viene ribaltato. Leon Klinghoffer era un signore americano ed ebreo. Stava su una sedia a rotelle. E fu buttato in mare, lui insieme alla sedia a rotelle, quando i dirottatori palestinesi sequestrarono e dirottarono nel 1985 l’Achille Lauro, una nave italiana. Klinghoffer era in crociera, non stava bombardando campi profughi. Però lo ammazzarono, su una nave italiana, perché era ebreo. In quegli anni si diceva che la battaglia palestinese avesse come sua bandiera l’indipendentismo e il nazionalismo laico e che gli ebrei e l’antisemitismo non c’entrassero niente. Nel 2006 rapirono a Parigi un giovane ebreo che si chiamava Ilan Halimi. Durante i 24 giorni di prigionia lo torturarono e mandarono alla madre prove raccapriccianti delle sevizie subite dal figlio. Poi lo arsero vivo e come un sacco di immondizia lo gettarono ancora agonizzante lungo la ferrovia. La polizia francese si disse “scettica” sulla pista antisemita. E dato che la polizia si diceva scettica, anche la stampa solitamente attenta manifestò a tal punto il proprio scetticismo da relegare la notizia nelle brevi di cronaca. Gli ebrei non c’entrano. Non alimentiamo le guerre di religione. Piano con le parole. Casomai, è il “degrado metropolitano”, il disagio sociale e via così. Poi venne celebrato il processo e grande fu lo stupore della stampa, solitamente attenta, quando il capobanda, prima di concludere il suo discorso con il grido “Allah Akbar”, definì gli ebrei (gli ebrei, dunque gli israeliani, e viceversa) “assassini di musulmani su scala planetaria, indottrinatori, manipolatori, nemici da combattere per il bene dell’umanità”. Strano. Strano soprattutto che nessuno di noi volesse guardare la realtà per quel che era.
So di cosa sto parlando. In quel mare infetto ho nuotato anche io quando ero un adolescente ignorante come quelli che sfilano con la kefiah il giorno dopo la carneficina di ebrei compiuta da Hamas. Ero molto scemo, e mi fa male riconoscere in ciò che ero io millanta anni fa la stessa ossessione idiota sui volti di chi oggi continua a non capire che la battaglia di Israele è per la sua sopravvivenza. Poi certo, si piange per “Schindler’s List”, si lacrima fino all’esaurimento per “La vita è bella”, ma abbiamo tutti una reazione distratta quando per caso veniamo casualmente a conoscenza che nei paesi arabi ci sono fiction tv ricalcate sugli appassionanti (e falsi) “Protocolli dei Savi Anziani di Sion”. Oppure che nella tv di Gaza si trasmette in continuazione la seguente predica: “‘Oh sheikh, ho quattordici anni, ancora quattro anni e poi mi farò saltare tra gli ebrei’. E gli dissi: ‘Oh, ragazzo, che Allah ti faccia meritare il martirio’”.
Non smette di stupire la nostra assoluta cecità, il nostro compulsivo doppio standard. Questo non voler capire che ce l’hanno con gli ebrei. Dicono che c’è stata un’epoca in cui l’indipendentismo arabo-palestinese, rivendicando la battaglia per rientrare in possesso di una terra usurpata dagli odiati sionisti, non aveva niente a che vedere con l’antiebraismo islamista così sfacciato di oggi. Difficile allora da spiegare come mai nel ‘67, prima di scatenare con Nasser l’offensiva poi perdente contro lo stato di Israele, la radio del Cairo trasmettesse inni, slogan e canzoni in cui si sognava il momento di gettare “gli ebrei in mare” e di “sgozzarli fino all’ultimo”.
C’è sempre un dritto e un rovescio, sempre un doppio movimento quando si parla degli ebrei e di Israele. Nell’antisemitismo per così dire classico che va dalla persecuzione di Dreyfus ai falsi Protocolli impacchettati dalla polizia segreta zarista fino all’apocalisse della Shoah, l’ebreo è bollato e linciato come un apolide senza radici che si insinua nei popoli sani e gagliardi per succhiarne le ricchezze ma anche l’anima. Un errante senza territorio. Adesso viene accusato di averne troppo, di territorio. Di aver messo troppe radici, di essere sin troppo patriottico. Senza o con territorio, l’ebreo è sempre troppo qualcosa. Diffidarne è meglio. Come mai? E’ che non si sopporta, secondo me, l’ebreo che dispiega la sua potenza. Un tempo la sua potenza economica, la plutocrazia, il capitale, le banche, l’“usura”. Oggi è la potenza militare e tecnologica. Non piace il nuovo ebreo forgiato nella battaglia, quello che piaceva al socialista Ben Gurion commosso, spietatamente commosso se così si può dire, dalla lotta eroica del Ghetto di Varsavia più che dagli altri milioni di ebrei che non avevano reagito sui vagoni piombati. Ecco perché ci commuoviamo tutti per “Schindler’s List” e non ci commuoviamo per la sorte di Israele. La vittima, l’ebreo offeso, umiliato, sterminato, artistico, sensibile, ironico, spirituale, quello sì. Quest’altro invece no. Quest’altro è troppo simile al peggio di noi occidentali: arroganti, conquistatori, colonialisti.
Che poi verrebbe da dire che certo, gli israeliani hanno commesso crimini anche in quella da loro stessi definita guerra di indipendenza del 1948, dove 700 mila palestinesi diventarono profughi destinati a restarlo nei paesi arabi in cui, per decenni, prima del ‘67, continuarono ad essere ospiti indesiderati, talvolta meritevoli di cruente punizioni. E’ tutto stato studiato. C’è scritto nei libri, della tragedia di Deir Yassin e dei villaggi in cui molti palestinesi morirono per mano israeliana. Ma il particolare curioso è: dove si trovano questi libri così sulfurei? Ecco, è nelle librerie di Tel Aviv e di Gerusalemme che trovereste di tutto: revisionisti, antisionisti, negazionisti. Tutto. Quando si dice che Israele è l’unica democrazia del medio oriente non è solo per retorica o per polemica. Ma perché lì c’è una vita culturale libera ed effervescente. Le università sono luoghi di dissenso. La cinematografia israeliana non sa cosa sia l’autocensura. La letteratura israeliana è una spina nel fianco permanente per l’establishment al potere. I giornali sono l’antenna sensibile di un’opinione pubblica attenta, che ama il conflitto delle idee, come dovrebbe essere nelle democrazie liberali. Le librerie sono zeppe di libri dove puoi trovare anche gli scritti di un grande intellettuale di origine palestinese come Edward Said, fervente antisionista, le cui opinioni dissidenti non sono mai piaciute alle dirigenze dispotiche arabe e palestinesi anche ora che Said è morto. Le librerie dei paesi arabi sono desolatamente vuote e non tollerano il dissenso. Ma per noi è normale che sia così. Non è un problema. Non è stato nemmeno un problema scandaloso quando una volta dal Gay Pride di Madrid furono cacciati via gli omosessuali israeliani. La libertà non è un problema quando a esserne privati sono gli altri, le popolazioni che circondano Israele. I nemici di Israele non sono mai amici della libertà. Mai.
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