La colpa di essere israeliani
Nel 1974, in una galleria di Napoli, l’artista Marina Abramović mise il proprio corpo a disposizione del pubblico per sei ore. Sul tavolo, 72 oggetti, dal miele alla rosa, dalla catena al coltello, alle lamette, dalla pistola carica, al proiettile. Chiunque poteva fare ciò che voleva. Lei non si sarebbe mossa. Non avrebbe reagito, aveva scritto su di un cartello.
All’inizio, timidezza. Tenerezze, sfioramenti. Poi, in rapida successione: punture, vestiti tagliati, strappati, pelle incisa, tagliata, sangue fatto colare, succhiato, una rosa conficcata nel ventre, una lama puntata alla gola. La pistola presa in mano. Alla fine della performance, quando la Abramović si alzò e mosse un passo, i partecipanti fuggirono. Non ressero la presenza cosciente, lo sguardo dell’essere umano che avevano appena brutalizzato.
Nei giorni scorsi, come ha scritto con grande lucidità l’illustre professoressa e scrittrice Daniela Santus, il Congresso Geografico Italiano è stato teatro non di una performance artistica, ma di un esperimento altrettanto inquietante: si è discusso se escludere due studiosi, Stanley Storper e Nufar Avnon, colpevoli – rispettivamente – di aver criticato il movimento BDS (che chiede il boicottaggio totale di Israele) e di appartenere all’Università Ebraica di Gerusalemme.
Non di ciò che fanno, non della qualità delle loro ricerche. Ma di chi sono.
La semplice appartenenza è colpa. Il boicottaggio accademico, l’esclusione di voci e di presenze viene fatto passare come un atto neutro, quasi asettico. Dovuto. Lo fanno sembrare come dovuto, senza avere nemmeno bisogno delle leggi razziali! Le hanno dentro. È il preludio al disumano.
È chiaro che l’esperimento di Abramović mi muove qualcosa di attuale e urgente.
Quando l’essere umano smette di essere riconosciuto come persona – quando è ridotto a simbolo, a bandiera, a corpo oggettivato – tutto è permesso. È permesso zittirlo, denigrarlo, isolarlo, umiliarlo, cancellarlo. È permesso che venga lasciato solo, senza che nessuno intervenga in sua difesa. Nell’autogrill, su Uber, per la strada.
Questo accade, sempre, quando si spoglia qualcuno della sua umanità e lo si trasforma in contenitore di proiezioni ideologiche.
Così Israele viene oggi trattato da molte accademie e movimenti militanti: non come Stato, non come popolo (perseguitato per millenni, che ancora non si è ripreso demograficamente dalla Shoah – occorre ricordarlo – e sono passati solo 80 anni!) ma come corpo oggettivizzato. Oggetto passivo di gesti punitivi, privato della parola, della complessità, della dignità.
Ogni cittadino ebreo, ogni docente israeliano, ogni artista che non si inginocchi al discorso unico del “colonialismo genocida” viene invitato a fare abiura – o tacere.
Non si sopportano distinzioni, spiegazioni, narrazioni, punti di vista diversi. Non si sopporta l’approfondimento storico e giuridico. Non si sopporta nemmeno chi tenti una mediazione. Questa psicosi collettiva di massa, questo culto, sta sradicando la base stessa non solo per ogni prospettiva di pace, ma per ogni vivere civile.
C’è solo da avere paura, perché è un metodo che cerca sempre nuovi colpevoli. È il metodo nazista. È il metodo di ogni totalitarismo.
Quando qualcuno si oppone, chi dovrebbe alzarsi in sua difesa, tace. Professori, musicisti, attori, giornalisti. Epurazioni.
E chi dovrebbe – davvero- difendere i diritti umani, i diritti delle persone ridotte a cavie da laboratorio dell’odio, a carne da macello, per interessi economici enormi (UNRWA-IRAN- ONG dal 1948 ad oggi) si fa invece megafono del terrore.
Una a caso. Francesca Albanese, chissà per quale avventura fortunata, nominata rapporteur ONU, ha detto qualche giorno fa che Hamas Hamas Hamas, (tre volte l’ha ripetuto, come Santo Santo Santo) ha fatto cose buone, scuole, ospedali, ha vinto le elezioni in modo democratico (non ricorda, lei che anche il fascismo ha vinto elezioni – costruito tribunali- emanato codici penali- bonificato paludi – fatto arrivare treni in orario). Ho appena visto un video in cui lei e Di Battista dicono che è ora che qualcuno chieda alle comunità ebraiche (sotto scorta da sempre) “Ma chi vi credere di essere”? Parole (e toni) che, in altri contesti umani, farebbero inorridire veramente CHIUNQUE. E qui vengono applauditi. Li vedremo in parlamento, questi due incompetenti, se il giornalismo italiano non risorge dalle ceneri.
In questo mondo al contrario, l’accademia tace. I movimenti tacciono. La sinistra tace. E nel vuoto di responsabilità, Hamas diventa “resistenza”, Israele “genocida”, la verità un’opinione negoziabile. Le parole, sottigliezze.
Dove nessuno interviene, il male prende piede. Lo mostrò Hannah Arendt analizzando Eichmann: la banalità del male nasce non da un progetto lucido di distruzione, ma dalla sospensione del pensiero, dal conformismo, dall’adesione passiva a ciò che “si fa”, a ciò che è “accettabile” nella comunità di riferimento.
Si è ormai pienamente creato quello spazio in cui il male prende forma non per ferocia, ma per indifferenza. Per compiacenza. Per paura di perdere il plauso di qualcuno. Per conformismo.
Oggi è il conformismo degli anticonformisti, ma sempre una divisa è.
Ritorno alla mia ossessione di questi giorni. Alla fine dell’esperimento, Abramović si alzò in piedi. Si fece di nuovo soggetto, presente, testimone. E le persone fuggirono vergognandosi per quello che avevano fatto.
Israele, oggi, si sta alzando. Sta rifiutando, nella immensa bellezza della sua democrazia, il ruolo di corpo silente da colpire senza conseguenze. Sta rivendicando la propria soggettività, la propria voce, la propria volontà di essere ascoltato non come simbolo, ma come popolo, come storia, come coscienza. Sta combattendo una guerra che non ha voluto, una guerriglia urbana in cui hamas hamas hamas ha preso ostaggi, che ha ucciso stuprato affamato, usa i tunnel per difendere i militari ed espone i civili come sacrifici umani. Una guerra che non dovevamo lasciare che Israele combattesse da solo. L’8 ottobre si doveva proporre una task force che eliminasse Hamas e Unrwa, in un colpo solo, da Gaza. Questo è. Ma figuriamoci.
In Israele folle oceaniche manifestano per la pace. L’autorità palestinese nell’ennesimo comunicato di questi giorni ha chiesto a Hamas di deporre le armi e ai gazawi di manifestare contro Hamas (hamas hamas). Non possono, perché i giornalisti glorificati dai media del mio paese sono anche i delatori che denunciano gli oppositori politici.
Qualcuno prima o poi si vergognerà. Come alla fine dell’esperimento di Abramovič. https://www.cipm.it/2023/10/17/marina-abramovic-rhythm-0/
Alessandra Casula (da facebook)



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