La crisi in Europa è politica
Siamo in mezzo ad una crisi conclamata da circa un decennio; da almeno cinque l’epicentro della crisi è l’Europa. Prima il terremoto bancario ha “attraversato l’Atlantico” colpendo soprattutto Irlanda, Gran Bretagna e Germania; poi è scoppiato il caso del debito sovrano greco; poi sono state contagiate Italia e Spagna; infine l’Europa si è confrontata con la guerra alle porte, con il terrorismo e con le migrazioni.
Il confronto con gli USA è ineludibile. Gli Stati Uniti seppure con disuguaglianze che in Europa definiremmo da età vittoriana in pochi anni sono ritornati ai livelli di disoccupazione pre-crisi. La politica americana forse non ha dato le migliori risposte possibili, ma ha dato risposte. I meccanismi decisionali dell’Unione Europa sono invece molto farraginosi e ciò costituisce un peso particolarmente significativo per i paesi che hanno deciso di condividere una moneta senza avere un governo ed un bilancio in comune. La crisi in Europa sembra non aver fine.
Su Facebook gira una diapositiva che elenca una serie lunghissima di dichiarazioni: il ministro delle finanze spagnolo dice che la Spagna non è la Grecia; l’Economist titola che il Portogallo non è la Grecia; il ministro delle finanze greco dice che la Grecia non è l’Irlanda e il suo collega irlandese dice che l’Irlanda non è la Grecia. La catena di Sant’Antonio si conclude con il primo ministro spagnolo Mariano Rajoy che invita il suo ministro delle finanze a tenere duro perché la Spagna non è l’Uganda; la replica non si fa attendere: il ministro degli esteri ugandese puntualizza che l’Uganda non vuole essere la Spagna.
Questa serie di titoli letta con poca attenzione sembra quasi una barzelletta, in realtà dimostra che in Europa è difficile sintetizzare una linea politica e le semplificazioni relative alla contrapposizione nord-sud non rappresentano la realtà. La scorsa estate Renzi e Hollande hanno lavorato sotto traccia per evitare l’espulsione della Grecia dall’euro, ma ben si sono guardati dall’esprimere una linea anti austerity. Oggi Renzi afferma di essere il paladino della flessibilità ma Tsipras pare più interessato a mantenere buone relazioni con la Merkel, fondamentale nella partita dei migranti, che a costruire un fronte dei paesi mediterranei. Tra l’altro nella storia recente del vecchio continente non c’è mai stato spazio per un asse del Mediterraneo, si pensi che durante i negoziati per il lancio dell’euro l’allora premier spagnolo Jose Maria Aznar non perse mai occasione di sottolineare la diversità della Spagna rispetto all’Italia di Prodi malata di debito. La storia recente, però, ha dimostrato che Aznar non era in grado di leggere i numeri dell’economia spagnola ed europea.
Sponsorizzare il fronte del sud probabilmente equivarrebbe ad una dichiarazione di debolezza, con ripercussioni negative sui mercati.
Tra l’altro i più accaniti antitedeschi sognano una Francia che capitani la brigata del sud, ma ciò si scontra con un dato economico ed uno storico. L’economia francese, si pensi alla disoccupazione, gira con numeri nettamente migliori di quelli mediterranei, inoltre i francesi, a cui sta stretto il ruolo di piccola patria europea e che sognano una politica di grandezza non accetterebbero mai di far parte di un’Europa di seconda fascia. Negli anni novanta la Francia sembrava incapace di convergere sul modello a cui si stava convertendo l’intera Europa, ma nessun esponente dell’elite politica o economica francese pensò di rinunciare all’euro.
Nell’Unione Europea mancano veri e propri partiti. I partiti europei sono blande confederazioni che aggregano spesso componenti nazionali sulla base di scelte di posizionamento fatte all’interno dei propri paesi, la sommatoria di tanti partiti nazionali spesso non riesce a sintetizzare una linea politica, anche perché i partiti non rispondono ad un elettorato europeo ma ai loro elettorati nazionali. Per esempio sul tema della politica economica le sinistre dell’Europa mediterranea accusano la tedesca SPD di essere appiattita sull’agenda economica della Merkel. Ancor più complicata è la questione immigrazione dove leader di destra come lo svedese Reinfledt e Angela Merkel si sono esposti sulla politica dell’accoglienza mentre mezza sinistra europea ha assunto atteggiamenti di totale chiusura.
In Europa prevalgono le geometrie variabili
- La Gran Bretagna, con i suoi tanti opt out, sarà presto un semplice paese associato dell’Unione legato agli altri paesi solo dal mercato comune, sempre che alle urne non prevalga l’alternativa Brexit
- La Svezia, la Danimarca e molti paesi dell’Europa Orientale stanno assumendo posizioni “isolazioniste” simili a quelle della Gran Bretagna, pur non avendo il potere contrattuale di Londra. I paesi nordici hanno caratteristiche diverse dai quelli ex comunisti che sul piano politico e della sicurezza sembrano spesso guardare più a Washington che a Bruxelles. Particolarmente critica potrebbe diventare la situazione dei paesi dell’est che hanno adottato l’Euro ma non hanno alcun progetto di condivisione di sovranità, caso paradigmatico è quello slovacco
- In economia si fa fatica a capire chi dentro e fuori i confini della Germania si oppone realmente alla politica della Merkel. Con il governo di larghe intese i socialdemocratici nei confini tedeschi hanno ottenuto il salario minimo orario e una moderata flessibilità sulle pensioni. Si tratta forse di provvedimenti simbolici che però pongono l’accento sulla necessità di correggere un modello basato troppo su esportazioni e competizione sui prezzi. Renzi si propone come leader alternativo all’Europa tedesca, ma cerca di imitare il socialdemocratico Schrӧder le cui scelte hanno plasmato l’attuale Europa più del trattato di Maastricht. Hollande, definito un improvvisatore dell’economia da Thomas Piketty che pure era stato suo grande sostenitore, oscilla tra desideri keynesiani e tentativi di scimmiottare l’agenda Schrӧder.
- In materia di immigrazione Angela Merkel aprendo le frontiere a tutti i siriani ha denunciato la insostenibilità di Dublino II. Se il governo tedesco, nonostante i fatti di Colonia, continua a sostenere la necessità di essere solidali con i paesi frontalieri, quello francese, quello britannico e quelli di molti paesi nordici e tutti i paesi postcomunisti dell’est blindano le loro frontiere
- In tema di politica estera la Francia da una parte chiede solidarietà ai partner europei, e, infatti, dopo gli attentati di novembre non ha fatto riferimento alle clausole di solidarietà militare della Nato ma a quelle del trattato di Lisbona, ma dall’altra sembra non voler far nulla per avvicinarsi a paesi come l’Italia e la Germania che hanno una sensibilità diversa in merito all’uso della forza. L’ex ministro dell’economia e uomo d’affari Thierry Breton per esempio propone una mutualizzazione del debito sostenuto per la difesa e la creazione di un corpo militare europeo, ma la Francia, potenza nucleare, sarebbe disponibile a mettere al servizio della politica estera comune il suo seggio permanente al consiglio di sicurezza dell’ONU?
Nell’Europa senza partiti e senza alleanze strutturate c’è quindi una sola linea, quella di Angela Merkel, che vince più che per suoi meriti o per mancanza di avversari, per mancanza di condizioni politiche per costruire un’alternativa. Oggi il pericolo più grosso per la cancelliera è la perdita di consenso in patria dovuta a scelte lungimiranti che però rischiano di far fare il pieno dei voti a partiti populisti. Solo due sconvolgimenti potrebbero cambiare le carte in tavola: la nascita di veri partiti europei che possano concordare una linea politica a sinistra di quella di Angela Merkel o un processo costituente che porti ad una federazione europea nell’area euro o addirittura in un perimetro più ristretto. Si tratta chiaramente di due processi che si alimenterebbero a vicenda ed è abbastanza arduo capire se si approderà mai ad un’Europa diversa da quella attuale e se saranno i partiti europei a fare la federazione o la federazione a fare i partiti europei
Salvatore Sinagra
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