La cura per la sfiducia è la partecipazione
Non stiamo messi bene. L’impressione è quella di un Paese allo sbando dove la corruzione dilaga e la criminalità spadroneggia. Ogni tanto spunta fuori un indagato. Di solito è un politico, ma può essere anche uno del mondo di quelli che gli affari li fanno o possono condizionarli. Per essere chiari: imprenditori, burocrati, banchieri. Oppure di uno che fa parte di una delle tante organizzazioni camorristiche o mafiose che pullulano nel nostro Paese. Magari non tutti sono colpevoli e le eventuali successive assoluzioni non fanno lo stesso rumore delle imputazioni, ma ciò non cambia poi molto nella situazione generale.
Non stiamo messi bene anche perché c’è ormai sfiducia generalizzata verso chi è investito del potere o aspira ad esserlo ossia verso i politici e i partiti che li raggruppano. E la sfiducia si estende anche alle istituzioni, alle amministrazioni, agli apparati, alle regole. A tutto ciò che dalla politica discende o è da questa controllato. Sfiducia nella dimensione collettiva dei problemi ai quali si cerca di dare risposte individuali. La ricerca di un trattamento di favore, di una scorciatoia per il proprio caso personale alimenta ancor più la sfiducia specie se si rivela più efficiente delle soluzioni collettive.
In realtà non stiamo messi bene anche quando sembra che l’unica risposta a questi problemi sia quella giudiziaria. È vero che i reati sono sempre atti individuali, ma è anche vero che c’è un’inclinazione di sistema e di cultura civile verso i reati commessi nell’esercizio di un potere pubblico. E a questo livello l’azione della magistratura non basta. Fermo restando che i reati vanno perseguiti bisogna pensare anche ad altre contromisure. Quali?
Pensiamo se il metodo per affrontare le decisioni che riguardano una comunità (un palazzo, una strada, un rione, un municipio …) fosse quello di condividerne il processo dando ad ognuno la facoltà di dire la sua perché si è tutti parte di un metodo che è procedura, ma che è anche sostanza e cultura cioè un radicale cambio di paradigma rispetto alle nostre abitudini. Non si tratta solo di mettersi a confronto né di essere ascoltati da chi possiede il potere di decidere perché delegato dagli elettori o investito di questa funzione dalla legge. Si tratta di assumere il punto di vista dell’interdipendenza di tutti i membri di una comunità tutti ugualmente interessati a superare i conflitti identificando le idee che si combinano per generare una soluzione.
Questo metodo si chiama partecipazione che va oltre e integra quella che si esprime con il voto o con la protesta o con la mera richiesta di essere ascoltati da chi poi decide.
In pratica ai tipici momenti della decisione a maggioranza e per delegati va aggiunta una fitta rete di pratiche partecipative nelle quali la mutua indagine è più interessante della votazione ovvero il confronto creativo prende il posto della ripartizione tra maggioranze e minoranze e della contrapposizione di idee.
Utopia? Fantasticherie? Non proprio. Ci sono molti esempi di successo nei quali la partecipazione ha risolto situazioni difficili. C’è anche chi l’ha messa al centro di una proposta programmatica per il governo della capitale d’Italia. Si tratta del documento elaborato da “La prossima Roma” il laboratorio di idee organizzato da Francesco Rutelli in previsione delle prossime elezioni romane. A questo documento bisognerà dedicare un’analisi specifica. Per ora basti dire che la partecipazione viene considerata come cuore dell’azione politica per la rinascita della città.
Una buona politica deve innanzitutto pensarsi come funzione sociale diffusa e non come materia di specialisti e già decidere che questo è l’obiettivo strategico da perseguire rappresenta una risposta alla cattiva politica e alla sfiducia.
Claudio Lombardi
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