La Francia oltre “Je suis Charlie” (di Salvatore Sinagra)
I drammatici attentati che hanno insanguinato Parigi hanno colpito un paese provato da tensioni, che hanno sicuramente una componente economica, ma che sono prevalentemente identitarie. Non siamo di fronte alla crisi della Francia, ma al malessere dei francesi.
Nel suo ultimo e controverso romanzo Michelle Houellebecq immagina che le presidenziali del 2022 si concluderanno con un ballottaggio tra la candidata del Fronte Nazionale e quello di un partito islamista. Una pseudo analisi politica con un uso spregiudicato della figura retorica dell’iperbole certo, ma il rischio di una Francia sempre più schiacciata da una doppia radicalizzazione Fronte Nazionale / estremismo islamico esiste. D’altra parte è un fatto che la Francia ha dato milioni di voti al FN e qualche migliaio di foreign fighters per l’Isis.
Il problema francese non deve essere sottovalutato, sia perché può anticipare il destino di tutta l’Europa, sia perché una lettura anche disattenta della storia porta alla conclusione che non ha senso ogni forma di integrazione europea che prescinda dalla Francia o dalla Germania.
I giornali, e quasi tutti gli economisti e politici, dipingono la Francia come un paese in profondo declino. I profeti del “franco-declinismo” radicale sono stati Giulio Tremonti in Italia e la stampa e la finanza anglofona nel mondo.
Eppure se si guardano i numeri, la situazione del secondo paese dell’Eurozona è meno grave di come è raccontata. All’alba della crisi nel 2007 il rapporto debito/Pil era di 21 punti percentuali più basso in Gran Bretagna che in Francia, oggi il sorpasso di Londra su Parigi sembra solo una questione di tempo; se si guarda anche alla politica monetaria si ha la sensazione che nei prossimi due anni la BCE aiuterà l’economia francese, mentre oltremanica si sono già giocati la carta della banca centrale.
In Francia la crisi ha comportato un aumento della disoccupazione, che è passata dal 7,5% del 2007 al 10,3% di oggi; si tratta chiaramente di un cambiamento gravido di conseguenze sociali e di un dato molto lontano dal 6 – 6,5% che si registra in Gran Bretagna e Germania; tuttavia la Francia in questi duri anni è risultata molto più resiliente dei paesi mediterranei. L’Italia nel 2007 aveva un disoccupazione inferiore a quella francese oggi viaggia attorno al 13%; la Spagna e la Grecia prima della crisi avevano una disoccupazione di circa l’8%, oggi rispettivamente del 24 e 26.
Le differenze tra Francia, Spagna e Grecia sono sotto gli occhi di tutti, quelle con l’Italia sono comunque rilevanti, tre punti di disoccupazione non sono briciole, il divario diventa ancora più visibile se si considera che la disoccupazione italiana è abbassata dall’elevato numero di donne e giovani che rinunciano a cercare lavoro. Per non parlare poi dei venti punti di differenza tra Parigi e Roma in termini di disoccupazione giovanile.
Se si guarda alla crescita demografica, non trascurabile per la tenuta del debito, per il welfare e per la crescita del Pil la Francia sbaraglia anche la Germania. E’ la strana storia di un paese che non crede nel futuro, ma continua a far figli.
Ha quindi ragione Krugman, quando scrive che la Francia non vanta le stesse performance economiche della Germania, ma non ha certo i problemi strutturali delle economie mediterranee. E’, però, giusto interrogarsi sulla sostenibilità dell’industria francese o sulla capacità della scuola francese di produrre integrazione e mobilità sociale.
Vista con gli occhi di un italiano la Francia appare dilaniata da profonde tensioni, frutto non solo del declino economico, ma di un senso di profonda impotenza di fronte alla globalizzazione. I francesi si sentono ridimensionati; sembra che guardino sempre e solo al bicchiere mezzo vuoto: sembra che i francesi si sentano schiacciati in un’Europa troppo tedesca ed in un mondo che parla mandarino e inglese e nel quale si afferma il ruolo potenze emergenti. Sembra non vogliano prendere atto che i tassi di crescita del dopoguerra, i famosi trent’anni gloriosi, non sono sostenibili per sempre. Si tratta di luoghi comuni? Forse, ma vi è la sensazione che la Francia non sia riuscita a compiere quell’operazione di riposizionamento che ha fatto Londra quando è collassato il suo impero.
Forse una via d’uscita c’è. Bisogna anzitutto dare una risposta alle paure di un paese che da diversi anni si sente sotto attacco. Troppi hanno galoppato queste paure, troppo pochi hanno dato risposte.
I francesi vogliono sicurezza sia sotto il profilo economico, che quello fisico. La Francia è il paese dell’eguaglianza, ma bisogna che sia ancora più egalitario. Occorre “ricapitalizzare” la scuola pubblica e investire nelle periferie. Hollande ha dimostrato grande fermezza di fronte agli attentati, deve fare lo stesso in economia. Ha spesso dato l’idea di improvvisare, lo ammette anche chi ha scritto il suo programma per l’Eliseo. Ciò, nel mezzo di una lunga crisi, fa crescere il senso di insicurezza.
Inoltre la Francia deve essere consapevole del fatto che non riacquisterà più il ruolo che aveva prima delle due guerre mondiali. Prendere atto della globalizzazione, che tra l’altro vede tra i suoi protagonisti alcune grandi imprese francesi, sarà fondamentale per costruire una nuova Francia e forse anche una nuova Europa, che sappia parlare con una sola voce nel mondo.
Salvatore Sinagra
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