La Maledizione di Zhigulì: spunti dalla storia della Fiat (di Alfonso Annunziata)

Sembra che una divinità minore di nome Zhigulì, femminile, nefasta, fosse nota e significativa già nel pantheon zoroastriano, in una religione cioè le cui origini si rifanno all’antica Persia ma i cui adepti ancora oggi contano un discreto seguito nell’area centro asiatica.

Quel che è certo è che il nome Zhigulì rimane nella nostra epoca ancora a individuare un massiccio montuoso nell’alto Volga, destinato a Riserva Naturale, nel distretto di Samara.

Quando ci fu l’accordo per la futura Togliattigrad fra il plenipotenziario FIAT Valletta (l’uomo del passaggio di FIAT dall’epoca fascista a quella degasperiana) e il regime cupo di Breznev, pronubo il PCI del tempo, e si concepì la costruzione della versione russa “da montagna” della già decotta FIAT 124 in uno stabilimento pilota Lada presso Samara, sul Volga, dovette dunque tornar semplice, per vicinanza geografica, scegliere come nome per la nuova auto proprio Zigulì, come il massiccio prospiciente.

Con l’accordo di Togliattigrad la FIAT rompeva un tabù nelle relazioni capitalistiche e consacrava un suo ruolo speciale, atipico, anticiclico rispetto al sistema occidentale e alla sua vicenda, talvolta duale e speculare.

Per anni e anni l’Occidente avrebbe affidato l’immagine del suo progresso a icone brillanti come Kennedy, Marilyn, Papa Giovanni, certo, ma anche alle luci di Las Vegas e alle fiammanti Ferrari. Proprio mentre lo stridore della frenata in piena notte di una zhigulì del KGB, della Stasi, della Securitate o dei Vopos valeva a scandire, nell’altra metà del mondo, il tentativo impossibile di fermare il tempo con repressioni crude e sanguinose.

E il passaggio per i saloni del Cremlino non sarebbe stata l’unica nota dissonante intrapresa da FIAT. Come non ricordare almeno l’immissione da parte del nuovo manager Gianni Agnelli di un forte azionariato libico nella propria compagine nel pieno di un duro braccio di ferro fra Libia e USA? Come non pensare allo sfruttamento implicito della repressione militaresca di Jaruzelsky per tenere alta la produzione di utilitarie polacche incredibilmente sdoganate come prodotto italiano, negli stessi mesi in cui il beato Wojtyla spendeva tutto sé stesso per le sorti del sindacato Solidarnosc? Come non ricordare la strana politica verso l’Iran?

Negli stessi anni sembrò essere una vera maledizione divina quella che ridusse e decimò la proprietà e i giovani eredi Agnelli, uno a uno, fino all’ultima morte eccellente, quella del giovane Edoardo, figlio di Gianni, che volò giù da un cavalcavia, un triste suicidio. Curioso che negli stessi giorni la propaganda dell’Iran khomeinista diffonda un film, un’opera di fantasia di pessimo gusto, che vuole Edoardo convertito all’Islam, imam sciita intenzionato a spostare le produzioni di Zhigulì dall’atea Russia al nord Iran e ucciso per questo da una cospirazione.

Pessimo gusto quello del film e curiosa coincidenza geografica verso gli altipiani centroasiatici, l’estinzione lenta degli Agnelli apre la strada dell’eredità a un ramo secondario, dopo una battaglia legale degna di una fiction: è il ramo degli Elkann, armeno-americano, forse con lontane origini azere. Il nonno di John e Lapo Elkann, ci riportano le biografie, da armeno e ebreo aveva appoggiato convinto Mussolini in odio all’impero turco. Finì deportato dai nazisti.

Per la FIAT nuovo giro di valzer alla guida, nuovi atteggiamenti anticiclici: la Fiat con Montezemolo predica l’importanza del manifatturiero in piena bolla finanziaria. Poi FIAT estrae dal cilindro il primo Marchionne, quello che, mentre la Cina avanza travolgente, spinge sul miglioramento delle condizioni di lavoro, via la cravatta, il verde in ufficio, gli asili nido per le lavoratrici.

Quindi, improvviso, il Marchionne 2, quello amerikano: conversione totale, e lo fa in tempi di Obama, di riforme liberali, con il dragone cinese prossimo alla saturazione, con la Germania che riparte proprio consolidando la produzione nazionale e aumentando il potere d’acquisto dei lavoratori. Si legge dalla biografia che il nonno di Marchionne, uomo della svolta serba, fu “infoibato” proprio dai partigiani serbi nel ’45, costringendo la famiglia a rifugiarsi in Canada. A volte gli uomini sentono la necessità personale di compiere un destino circolare tornando nei medesimi luoghi, e ciò è più forte di ogni logica.
L’ultima scossa della vocazione anticiclica e dello spirito di contraddizione di FIAT è quella degli anni che viviamo: Marchionne che si fa ritrarre nel Brasile profondo al fianco del presidente uscente e sindacalista massimalista Lula all’inaugurazione dello stabilimento di Pernambuco, costruito forse a sostituire Termini Imerese e Melfi, negli stessi minuti in cui l’Italia sta decidendo la più dura presa di posizione contro quel Paese per l’affaire del terrorista rosso Battisti.

E ancora, quelle decisioni di ristrutturazione, e quelle asprezze antisindacali senza equilibrio per gli stabilimenti italiani, che sembrano puntare contro la pace sociale, contro lo storico equilibrio sindacale costruito in 30 anni di limature, nell’ora più nera per l’economia nazionale, in cerca di non è chiaro cos’altro se non guai, in un Paese che certo non può erogare aiuti pubblici come gli USA e la Serbia, né fornire manodopera a costi anche solo lontanamente competitivi con il quarto mondo, proprio ora che anche il manifatturiero africano si candida a competere al ribasso persino con gli storici minimi cinesi e coreani. E tutto ciò mentre si disinveste dalla ricerca e dal valore aggiunto, cioè dall’unica pur tenue speranza di una nazione medio-avanzata come la nostra.

Maggiormente intricata e complessa l’analisi sui ruoli controversi e talora indecifrabili di Fiat, per dirla con Benigni l’unica fabbrica di «macchine che gli italiani pagano sempre e non comprano mai». Più semplicemente, seguendo le ipotesi peggiori di tribunali giudicanti, o giornalisti malevoli, l’azienda del termovalorizzatore che non potrà mai bruciare le sue eco balle (Acerra) o progettista del ponte ferroviario più ardito (stretto di Messina), ma che non può reggere i treni. Insomma un’azienda per cui cambiare nome in fretta potrebbe non essere solo una questione di contratti metalmeccanici, ma proprio una strategia.

Racconta molto nelle sue memorie la compianta Susanna Agnelli. Racconta di suo fratello Gianni (autore peraltro con Lama dell’accordo sindacale che i sistemi di Fabbrica Italia affossano), racconta di Gianni giovanissimo ferito a un piede mentre difendeva assieme ai suoi operai dai nazisti lo stabilimento del Lingotto. Ma racconta anche di suo nonno Giovanni che poteva entrare sempre senza appuntamento a Palazzo dal Duce, e il cui treno sulle ferrovie riceveva la precedenza persino sul convoglio reale. Racconta Donna Susanna di Ernest Hemingway, lo stesso che la letteratura ci consegna nel suo immenso Per Chi Suona la Campana mentre dedica una particolare durezza ai tragici bombardamenti chimici sulle città spagnole nel ’36 da parte dei piccoli velivoli FIAT (erano prodotti a Pomigliano), lo stesso Hemingway che Susanna Agnelli ricorda ospite frequentissimo alle celebrazioni organizzate da sua madre.

A volte l’anticiclicità, o la dualità di un’azienda, sia pure un’azienda storicamente strutturale alla Nazione, si presta a interpretazioni contrapposte, segno inequivocabile di anticipo sui tempi per i fautori, deciso sintomo di ritardo su epoche in chiusura per i detrattori. Tutti gli altri spettatori debbono più modestamente sperare in bene, augurarsi che non si tratti solo di disorientamento e avventurismo del conduttore di turno. Troppe volte questo Paese però ha fatto da genitore paziente salvando la sua Azienda, figlia prediletta, dai guai in cui, di epoca in epoca, irriducibile “Pierina la Peste”, con fantasia sempre nuova, non smette di cacciarsi.

Alfonso Annunziata

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