La massima tutela del lavoro? La formazione efficace

Stralci di un intervento di Pietro Ichino al Convegno dell’Unione dei Giuristi Cattolici Italiani. Tratto dal sito www.pietroichino.it

La riflessione che vi propongo va proprio alla radice della ragion d’essere della materia stessa a cui ho dedicato tutta la mia vita adulta: la materia, cioè, del diritto del lavoro, della protezione del lavoro, del sistema delle relazioni industriali.

Se  cerchiamo la ragion d’essere dell’ordinamento del lavoro nelle prime pagine dei manuali e dei trattati di diritto del lavoro, la troviamo immancabilmente individuata nello squilibrio tra domanda e offerta, considerato come dato strutturale del mercato del lavoro. In altre parole, la ragion d’essere del diritto del lavoro sarebbe il difetto della domanda di manodopera rispetto all’offerta: questo squilibrio determinerebbe una strutturale, generalizzata debolezza contrattuale del lavoratore a cui occorre porre rimedio.

Sennonché da qualche anno noi ci troviamo di fronte a notizie sempre più martellanti nella stampa, nell’informazione quotidiana, che ci raccontano una storia completamente diversa; una storia che impone una riflessione approfondita. (….)

Ci troviamo di fronte a due fenomeni in parte nuovi che ci impongono una riflessione critica. Il primo: sempre più frequentemente le imprese hanno difficoltà – e, lo vedremo tra breve, difficoltà talvolta gravi – a trovare le persone di cui hanno bisogno.

Secondo fenomeno: la maggior parte delle persone è sempre più capace di scegliere l’azienda in cui lavorare. Di questo abbiamo avuto ultimamente notizia sotto il titolo in lingua inglese “the great resignation”. Si tratta di un fenomeno che riguarda tutti i paesi sviluppati: è bruscamente aumentato il numero delle persone che lasciano volontariamente il proprio lavoro per andare altrove, per fare altro. Il che implica ovviamente che queste persone hanno una possibilità di scegliere.

Questi due fatti mettono in discussione il nostro modo tradizionale di intendere il mercato del lavoro, imponendoci di ripensare il sistema stesso delle tecniche di tutela, perché il sistema di protezione del lavoro nasce in riferimento a un mercato che ha una struttura completamente diversa, quella che gli economisti indicano e studiano con il modello del monopsonio strutturale.

Che cos’è il monopsonio strutturale? È quel mercato in cui c’è un unico compratore di fronte a una grande pluralità di venditori. Nel nostro caso il compratore è l’impresa industriale, che nasce nella prima rivoluzione industriale come una “cattedrale nel deserto”: il deserto della disoccupazione o sottoccupazione agricola, che fa sì che l’imprenditore si trovi di fronte a una platea di offerenti di manodopera privi di potere contrattuale perché non hanno scelta. O le condizioni offerte da lui o lei o la disoccupazione e la miseria.(…)

Ora, però, se le cose stanno nei nuovi termini di cui dicevo all’inizio, o stanno almeno in parte in quei nuovi termini, questo ci impone di guardare al mercato del lavoro con un occhio diverso.

Vi propongo una rassegna molto rapida; ma, credetemi, avrei potuto moltiplicare per venti o per trenta i ritagli di giornali nei quali mi sono imbattuto nel corso di questi ultimi anni e soprattutto di epoca più recente.

“Lavoro: introvabili quattro figure su dieci”. (….) Questa situazione che nel linguaggio delle scienze sociali si chiama skill shortage (carenza di competenze) riguarda tutte  le categorie produttive e tutti i livelli professionali, non è un fenomeno limitato al lavoro specializzato.(….) Addirittura in due casi su tre non si trovano gli operai specializzati del tessile e abbigliamento.

Non è una  novità, solo da un anno noi sentiamo parlare della Great Resignation, ma gli osservatori più attenti hanno rilevato questo problema e la sua tendenza alla crescita già da molti anni.

Questo è un ritaglio de La Stampa del marzo 2012, dieci anni fa: “Le aziende cercano personale ma il mercato non ha risposte. Mancano formazione e orientamento”. Perché è chiaro: non è che manchino le persone (…). Il problema è che quelle persone non hanno a disposizione un percorso di formazione o addestramento che le conduca a rispondere alla domanda che nel tessuto produttivo si esprime.(….)

Guardate: questa è una notizia del 15 Ottobre, siamo a due mesi fa: “Assunzioni giù del 26,5%” – è incominciata la fase recessiva ma – “in un caso su due” (è   un arrotondamento: Unioncamere e Anpal dicono nel 45% dei casi) “le imprese non trovano le giuste competenze”.(….)

Se ne parla poco; eppure anche questo è un fattore di crisi. Quanto ci costa in termini di mancata crescita e/o di resistenza alla recessione che verrà?. Tenete conto che quella stessa indagine, che è un’indagine permanente Anpal – Unioncamere denominata “Excelsior”, quantifica in un milione e duecentomila i posti di lavoro che restano permanentemente scoperti perché le imprese non trovano la persona adatta a ricoprirli. Ora, se considerate che la nostra disoccupazione oscilla fra i due milioni e mezzo e i tre milioni – e siamo al 9% di disoccupazione rispetto alla forza lavoro complessiva – vi rendete conto che se noi fossimo in grado di costruire i percorsi che portano dalla situazione della persona in cerca di lavoro a ciò che il tessuto produttivo richiede, noi potremmo dimezzare la nostra disoccupazione riportandola al di sotto di quel 5% che è considerato dagli economisti di tutto il mondo come la soglia della disoccupazione fisiologica (…).

Abbiamo visto, poi, che il problema si pone a tutti i livelli: quindi non si tratta di far prendere a un disoccupato la laurea in chirurgia o in elettronica; si tratta di attivare un corso di formazione che può anche essere di tre mesi, quattro mesi, sei mesi, un anno. Ma se noi fossimo in grado di costruire questo percorso per ciascuno dei posti di lavoro rispetto ai quali si verificano queste situazioni di skill shortage, avremmo eliminato la parte patologica della disoccupazione, avremmo rimesso il mercato del lavoro in equilibrio.

Arriviamo così ai giorni nostri, con la Great Resignation. (…) Se aumentano le dimissioni è perché la gente ha più facilità a trovare un nuovo lavoro. I lavoratori si spostano più frequentemente a un altro settore, a un altro contenuto professionale. Dunque – questo è il dato nuovo con cui dobbiamo fare i conti – hanno una possibilità di scelta.

Il mercato del lavoro si caratterizza sempre di più come “mercato transizionale”, cioè come un mercato nel quale la persona non resta ingabbiata nella posizione che assume al suo ingresso nel tessuto produttivo: è normale, è usuale che la posizione cambi, che la persona esca da un settore, esca dal singolo mestiere, cambi attività, si sposti, si muova. Perché questo è oggi molto più possibile di quanto non fosse in passato.(….)

Ecco perché dico che occorre rovesciare il paradigma del mercato del lavoro: perché esso non può più essere considerato, concepito, studiato soltanto come mercato “del lavoro”, cioè come luogo dove è solo l’imprenditore a scegliersi i propri collaboratori, ma è anche in larga parte un mercato “dell’imprenditoria”. Cioè un luogo in cui sono i lavoratori a scegliersi l’impresa che meglio può valorizzare il loro lavoro. Non è solo l’imprenditore che sceglie ma in molte situazioni sono anche i lavoratori a scegliere e ingaggiare l’imprenditore e questa è una nozione sorprendente, una nozione che impone un modo nuovo di guardare ai problemi del mercato del lavoro.(…)

L’idea che tutti debbano poter scegliere nel mercato del lavoro, cioè debbano essere messi in condizione di optare tra una possibilità  di lavoro e un’altra per scegliere quella che ritengono migliore, non è un’utopia; è detto nell’articolo 4 della Costituzione dove si legge che “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. (….)

Ora, qual è il modo in cui si rende effettivo questo diritto? Occorre assicurare alle persone le necessarie informazione, formazione efficace e mobilità.(….)

Il nocciolo della questione (…) è la nozione di formazione efficace. Ricordo qui quella che fu un’intuizione importantissima di Bruno Trentin (…) il quale, pensate, nei primi anni ’90 già parla del diritto alla formazione permanente efficace come protezione fondamentale del lavoro nell’era dell’economia digitale e della globalizzazione. Già dieci anni prima dei grandi scontri sull’art. 18 Bruno Trentin diceva “guardate che la protezione fondamentale è la formazione efficace”.

Dobbiamo dunque interrogarci su cosa sia la formazione efficace e come la si garantisca. (…). La formazione che serve per l’empowerment (potenziamento) della persona è solo quella di cui si conosce la qualità e l’idoneità a rispondere a ciò che il tessuto produttivo richiede.

Che cosa garantisce che la formazione sia efficace? Occorre un monitoraggio permanente e capillare del tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi. Questo monitoraggio permanente è possibile, ed è sperimentato in numerosi Paesi attraverso uno strumento molto facilmente comprensibile nella sua natura e funzionamento: un’anagrafe della formazione. Esattamente come abbiamo un’anagrafe scolastica, allo stesso modo occorrerebbe un’anagrafe di tutti i frequentatori di corsi di formazione finanziati col denaro pubblico, i cui dati dovrebbero essere incrociati con le comunicazioni al Ministero del Lavoro sui contratti di lavoro che vengono via via stipulati, ma anche agli albi di mestieri, di professioni e anche le iscrizioni alle liste di disoccupazione, lungo tutta la vita della persona. Se realizzassimo questo incrocio tra i dati dell’anagrafe della formazione e i dati su ciò che accade alla persona nel mercato del lavoro noi avremmo di ogni corso l’esatta misura dell’efficacia: cioè quando e quanto quel corso abbia prodotto risultati occupazionali.(…)

Questo dato è indispensabile per il servizio di orientamento scolastico e professionale. Nei paesi dove il guidance service (servizio di orientamento) funziona chi lo esercita, il job advisor ha questo come materia prima, o se preferiamo come strumento di lavoro: la possibilità di dire innanzitutto a ogni adolescente all’uscita di ogni ciclo scolastico (ma anche alla persona adulta che intende cambiare lavoro o ha perso il lavoro e ne deve trovare un altro): “guarda, questo corso in tre mesi ti porta a fare l’antennista di cui c’è gran bisogno e hai un’ottima probabilità di ottenere il posto perché il corso ha un tasso di coerenza dell’80-90%; in sei mesi puoi andare invece a fare quest’altra cosa; se vuoi invece investire di più, in 12 o in 24 mesi puoi fare quest’altro percorso, più ambizioso, nel quale ti assistiamo, ti appoggiamo, ti retribuiamo”. Perché la Cassa integrazione, il Reddito di cittadinanza, la Naspi, il trattamento di disoccupazione sono tutte forme con cui si può retribuire chi sceglie di compiere un percorso di formazione e riqualificazione.

Ma per fare questo occorre che si conosca il tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi; e che poi si attivi la condizionalità, cioè che i servizi per l’impiego svolgano effettivamente la funzione di proporre i percorsi di transizione alla nuova occupazione; ma al tempo stesso di condizionare il godimento del sostegno del reddito alla scelta effettiva di un percorso da parte della persona interessata.

Senonchè questo dato – il tasso di efficacia della formazione – in Italia non è disponibile. Quando noi parliamo di “servizio di orientamento scolastico e professionale” parliamo di qualcosa di incomparabilmente meno sviluppato e sofisticato di quello che funziona nei Paesi del centro e nord Europa, dove ogni adolescente, all’uscita da ogni ciclo scolastico, è raggiunto capillarmente e in modo efficace di questo servizio.

Concludo osservando che questo meccanismo di rilevazione del tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali era previsto nel Decreto legislativo numero 150 del 2015, uno degli otto decreti attuativi del Jobs Act, agli artt. 13, 14, 15, 16. Che prevedeva esattamente questo. La previsione normativa, trattandosi di materia di competenza delle Regioni, è stata emanata previa intesa tra Stato e Regioni in sede di conferenza Stato-Regioni: tutte le Regioni, dunque, avevano prestato il loro consenso. Altrimenti la norma non avrebbe potuto essere emanata in una legge dello Stato. Dopodiché il referendum sulla riforma costituzionale è andato come è andato, tutta l’ipotesi politica che era stata coltivata fino a quel momento è venuta meno; e queste norme – che però sono pur sempre norme dello Stato, sono norme in vigore – sono rimaste lettera morta: non c’è una Regione che abbia realizzato questo meccanismo.(…)

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